Bullet Ballet, di Shinya Tsukamoto
Il lirismo che trapela dalle immagini rende il film quasi un’anomalia nel primo cinema del maestro. Eppure sono queste deflagranti esplosioni di vitalità che disegnano le nuove vie della sua poetica

Quale destino attende i personaggi del primissimo cinema di Tsukamoto, nel momento in cui i loro corpi non si contaminano con l’elemento inorganico, senza perciò dare vita a quell’unica forma di ibridazione che consente loro di respingere le atmosfere ingabbianti della metropoli in pieno periodo post-bolla? Già in Tokyo Fist il regista nipponico aveva ragionato su questo tema, tanto da dedicare un intero film all’indagine interna dell’organismo umano, ritenuto – guarda caso – inadeguato a resistere agli effetti deumanizzanti della Lost Decade, data la fallibilità intrinseca della carne. Ed è in una cornice simile che Tsukamoto iscrive i discorsi sul rapporto uomo-metallo che attraversano trasversalmente il racconto di Bullet Ballet, i cui personaggi, lontani dalla “perfezione corporea” dei cyborg di Tetsuo, tentano di astrarsi dalla sudditanza verso l’elemento inorganico, per cercare (senza mai riuscirci) di controllarlo.
La volontà dei protagonisti di Bullet Ballet di cercare in uno strumento metallico il viatico per la loro affermazione nel mondo, soprattutto in termini esistenziali, è – sembrerebbe suggerirci Tsukamoto – una mera fantasia: un’illusione che testimonia, più di mille mutazioni e ibridazioni corporee, il grado di subalternità che l’organismo umano, sullo sfondo di una recessione economica/sociale di cui al tempo si faticava a vedere la fine, ancora manifesta nei confronti del metallo, e quindi di tutto ciò che è ontologicamente incompatibile con la finitezza della carne.
Ed è alla luce di queste istanze, che il tentativo di Goda (interpretato dal regista) di rintracciare la pistola con cui la sua fidanzata si è tolta la vita nel prologo, in modo da suicidarsi con la stessa arma che ha posto fine all’esistenza della giovane donna – e che segnerà nel sangue i destini delle giovani bande di teppisti con cui si confronterà da ora l’uomo – esplicita in Bullet Ballet una contiguità assoluta (anche se in termini relativamente diversi) con le riflessioni avanzate dal maestro per tutto il capitolo iniziale della sua carriera. Quando cioè il discorso sul corpo dell’individuo era ancora calato in un’ottica di totale “matericità”, dal momento che le anime desolate del primo cinema di Tsukamoto, data la prossimità temporale allo scoppio della bolla, erano ancora costrette ad esperire fisicamente le conseguenze socio-culturali del tramonto improvviso della bubble economy, senza la possibilità di infrangere le maglie stringenti della megalopoli, e di annullare così quella narcotizzazione emotiva sotto cui continuano, inesorabilmente, a soccombere: e che li sta portando ora a vivere ogni giorno al limite, al fine di provare emozioni impossibili da esperire alla luce della desensibilizzazione collettiva a cui li ha assoggettati la società odierna.
Ma ciò che rende Bullet Ballet un film così singolare e almeno in parte “apripista” nella filmografia di Tsukamoto è proprio questa esigenza, manifestata in ogni istante dai personaggi, di controllare l’elemento inorganico (rappresentato dalla pistola) e di servirsene per manifestare la loro voce in un mondo insensibile alle soggettività della gioventù nipponica. Non sorprende, perciò, che il cineasta delinei qui il suo primo – e diremmo unico – lungometraggio generazionale, incentrato non più sulle crisi e le metamorfosi quotidiane del salaryman (quindi del giapponese-tipo) ma sulla presentazione di un reticolo di giovani perduti, appartenenti alla stessa categoria sociale, e destinati ad inseguire delle fantasie che li porteranno, sulla scia dei loro omologhi di Tokyo Fist, a prendere coscienza della risibilità – se non addirittura della tragicità – della condizione in cui (soprav)vivono.
Nessuno di loro, sotto lo scalco della Lost Decade, può sperare veramente di trovare una pacificazione al malessere collettivo che li sta soffocando, a meno che non si sacrifichi la propria autonomia coscienziale contaminandosi, alla pari del protagonista di Tetsuo II, con la perfezione della macchina. Eppure, nonostante rifiutino tale possibilità, cercano ossessivamente di strumentalizzare, secondo le proprie esigenze personali, il richiamo mortifero della pistola di metallo. Ed è in nome di questo afflato di libertà che Bullet Ballet può connotarsi, a differenza dei film precedenti, di uno spirito paradossalmente lirico, di cui Tsukamoto qui si serve per dare vita a sequenze deflagranti, cariche di una densità emotiva al limite del sublime, tale da catalizzare i sensi di chi guarda, lasciandoci emotivamente indifesi. Quasi il filmmaker ci stesse invitando ad immergerci in un piano differente dalla realtà, in cui a dominare sono le aspirazioni più recondite dell’animo umano, e quindi il tepore emotivo che si portano dietro.
Ma queste istantanee, visibili nella danza di Chisato (che verrà richiamata in Kotoko) o nella corsa finale verso un orizzonte solo immaginato, hanno una durata breve. Perché il mondo reale, quello in cui buona parte dei personaggi perdono la vita in nome di un desiderio utopico, è sempre lì a ricordare alle anime perdute del film l’insoddisfazione collettiva che cadenza tragicamente le loro effimere vite. Eppure la sola presenza di queste immagini così idilliache ed apparentemente cariche di speranza testimonia, già di per sé, la volontà del regista non tanto di codificare Bullet Ballet come uno spartiacque della sua carriera – di quel ruolo se ne farà carico Vital – quanto di posizionarlo alla stregua di un termometro di molte delle istanze che guideranno le narrazioni tsukamotiane a partire dall’inizio del nuovo millennio. E per quanto i corpi di Goda, Chisato e compagni siano ancora lontani dal perdere di massa, e dall’aprirsi così al mondo della coscienza, del sogno (i due Nightmare Detective) o dell’antimilitarismo poetico (si veda la trilogia iniziata con Nobi) è pur vero che il rifiuto della sudditanza all’inorganico perseguito dai personaggi, unito alle brevi esplosioni di vitalità di cui si fanno veicolo, anticipano l’inizio di un corso diverso nella riflessione cinematografica del regista. Che qui porta i giovani protagonisti ad agognare per sé stessi un futuro più luminoso, malgrado alla fine del tunnel sia ancora impossibile intravedere un barlume di luce.
Titolo originale: id.
Regia: Shinya Tsukamoto
Interpreti: Shinya Tsukamoto, Kirina Mano, Tatsuya Nakamura, Takahiro Murase, Kyoka Suzuki, Hisashi Igawa, Tomorowo Taguchi, Kim Soo-jin, Kazuyuki Izutsu, Kôji Tsukamoto, Masato Tsujioka, Chu Ishikawa, Hiromi Kuronuma, Yutaka Mishima
Distribuzione: Cat People Distribuzione
Durata: 87′
Origine: Giappone, 1998