“Buona giornata”, di Carlo Vanzina
Nonostante l’onesta vocazione commerciale del loro cinema, i Vanzina minano le basi stesse dell’apparato produttivo distributivo, fottendosene del risultato, cioè del prodotto, della merce, e vivendo nel pieno disinteresse degli standard qualitativi medi, garantiti da una regolarità seriale (malgrado loro siano quelli dei “capitoli secondi”). Ma ormai, a dirla tutta, sono persino al di fuori di un’ottica artigianale. Il loro approccio è amatoriale. Fanno cinema perché lo amano e perché non potrebbero far altro
È chiaro che, dopo 53 film, non vale più la pena chiedersi se i Vanzina abbiano qualcosa da dire o meno. Ma davvero si vuol credere che queste microstorie che compongono Buona giornata, poco più che abbozzi di appunti, rispondano all’intenzione di ritrarre, più o meno garbatamente, i vizi degli italiani? Il punto è che, ormai, per i due magnifici fratelli, il cinema è un riflesso condizionato, un’ossessione compulsiva. E non è più neanche questione di attendere le occasioni giuste, Natale, Capodanno, estati al mare o vacanze in America, pranzi della domenica e via dicendo. Ogni momento è quello giusto, ogni giornata è buona (per non morire). La necessità del gesto, ormai, va ben oltre ogni ansia di prestazione. E la recidiva ostinazione di scrivere e girare conta ben più del risultato. Ogni obiezione di sciatteria cade di fronte all’evidente obbligo della prassi. C’è una sorta di perfezione ripetitiva e meccanica nel cinema dei Vanzina. E per questo, provocatoriamente, ci piacerebbe vederli alle prese con un porno. Del resto le premesse ci sono. Stesso disinteresse per la trama (troppa trama!), l’abbandono completo alla performance attoriale, far vedere sempre e solo l’essenziale, non curandosi del dentro e del fuori… Eppure quel loro innegabile, complice affetto per i tipi (più o meno soggetti) che raccontano sa di un umanesimo istintivo che contraddice proprio questa apparenza meccanica.
Sta qui lo scarto, che apre la porta a un paradosso ancora più straordinario. Quell’incuria dei Vanzina per la regolarità della forma, la precisione della scrittura e la tenuta della struttura, sempre più palese e sempre più simile a quella di altri registi dei loro tempi di questi tempi (Verdone? Per certi versi Argento?), sembra porli completamente al di fuori di una logica industriale. Nonostante l’onesta vocazione commerciale del loro cinema, minano le basi stesse dell’apparato produttivo distributivo, fottendosene del risultato, cioè del prodotto, della merce, e vivendo nel pieno disinteresse degli standard qualitativi medi, garantiti da una regolarità seriale (malgrado loro siano quelli dei “capitoli secondi”). Ma ormai, a dirla tutta, sono persino al di fuori di un’ottica artigianale. Il loro approccio è amatoriale. Fanno cinema perché lo amano e perché non potrebbero far altro. E ogni film è una festa di famiglia ripresa in fretta e furia, con gli amici in piena libertà e i santini del passato da ricordare, per cui sogni sempre di vedere Christian De Sica giocare a scopa col figlio del portiere e perdere irrimediabilmente ogni partita (col padre?). Si respira una nostalgia che sembra aristocratica, di blasoni e di araldica, ma che, in realtà, si rivolge alla sostanza intimamente popolare di un’Italia che è sempre quella dei soliti ignoti. In nome di una visione non democratica (perché se no ve lo pijate ‘nder …), ma forse ancor più radicale, quasi utopistica. Del resto i Vanzina sembrano sempre sul punto di rinunciare alla paternità, a qualsiasi diritto di proprietà intellettuale, per affidarsi all’estro e al mestiere dei compagni. Il loro è il cinema dei figli nel nome dei padri. Cinema della prole. Cinema proletario? Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni.
Regia: Carlo Vanzina
Interpreti: Christian De Sica, Diego Abatantuono, Lino Banfi, Vincenzo Salemme, Teresa Mannino, Tosca d’Aquino, Maurizio Mattioli, Paolo Conticini, Gabriele Cirilli, Chiara Francini
Distribuzione: Medusa
Durata: 104’
Origine: Italia, 2012