By the Stream, di Hong Sangsoo

Il regista coreano si conferma un’abile conoscitore della natura umana, con le sue paure e le sue speranze, in un’altra opera mirabile che unisce il cinema al teatro. LOCARNO 77. Concorso

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Come in un’infinita variazione di uno spartito musicale, il cinema di Hong Sangsoo utilizza le stesse armonie dentro uno schema ormai consolidato. Una rete di note che trova una definizione nel flusso di pensieri e parole solo all’apparenza banali, nascoste tra persone comuni. Una poesia fatta di confidenze e pianti, amore e difetti da eliminare. La prolifica opera di Hong Sangsoo si arricchisce di un altro titolo legato all’acqua, con il suo divenire ininterrotto, quella di un ruscello che la protagonista Jeonim non si stanca mai di guardare e riprodurre in uno schizzo, un’abitudine perfetta a trovare dei pattern cromatici per le sue opere tessili. Dopo uno scandalo nel laboratorio teatrale all’interno dell’Università dove lavora, che mette a repentaglio il progetto di fine corso, la donna chiede aiuto allo zio, un’artista ormai in pensione la cui carriera ha preso il via presso lo stesso istituto.

Oltre ad esplicitare ancora una volta l’esigenza di uno scambio generazionale, grazie all’utilizzo dei dialoghi infiniti inquadrati perfettamente con una camera fissa, e tema preferito degli ultimi film, se pensiamo a In Our Day o alle sfocature di In Water, i preparativi della rappresentazione servono a mostrare il lavoro sugli attori, punto cruciale degli ultimi soggetti realizzati. Una propedeutica ormai quasi didascalica, giocata a carte scoperte, sempre lontana dalle gabbie didattiche e vicina ad un approccio fenomenologico, alle esperienze coscienti come rampa di lancio per una comprensione di sé stessi e del mondo. Racconti persi nel tempo formano un cumulo di memorie accantonate, ricordi e speranze che in un momento trovano un senso in una confessione liberatoria e dolorosa. Quello che si respira è sempre un clima etilico di condivisione, dove si consumano brindisi e si aprono i cuori, quelle verità accompagnate dall’amarezza del destino, le ore felici lontano dai problemi. Un canovaccio con pochi decisivi punti chiave attorno a cui ruotano sorrisi colloquiali dei pochi personaggi, improbabili proposte di matrimonio, gratitudine, riconoscenza. Gli spazi sono ambienti conosciuti, l’interno di un ristorante, le pareti di un appartamento, che quando appaiono svuotati dalla presenza umana assumono un’atmosfera sospesa in una dimensione di passaggio, dove albergano gli spiriti, sorvegliati dalla luna, pronta a vegliare in cielo, ripresa nel suo moto crescente.

La solitudine, la difficoltà o meglio l’impossibilità ad aprirsi agli altri se non facendo ricorso ad un artificio, le relazioni finite male, le ferite mai rimarginate, le liti familiari; è quasi rassicurante constatare come gli argomenti siano chiusi all’interno di un cerchio archetipico, invariato nel tempo e restino mutevoli e e precari gli interpreti. Hong Sangsoo raccoglie nelle ansie sociali, nelle aspettative frustrate, nelle paure degli sbagli per focalizzare le malattie del presente o fotografare la realtà del progresso aggiornando la visione, adattandola ai cambiamenti. Non cambia lo sguardo attento, curioso e leggero, non cambiano lo stile canzonatorio e le espressioni buffe che trattano il dramma al pari di un personaggio fuori campo. Un cinema insomma inarrivabile nella sua capacità di donare sollievo, pieno di rispetto, educato, che crede nella magia dei suoi interpreti e vuole diventare un’onda, un credo, una scuola. Da conoscere e tramandare come modello di una semplicità di valore assoluto.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
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Il voto dei lettori
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