Call of God, di Kim Ki-duk

Il magnifico testamento cinematografico del regista coreano, un film dalla purezza cristallina sull’amore, il desiderio e l’ossessione, dentro un sogno confuso con la realtà. Fuori Concorso

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Quanto di vero si nasconde nel titolo nell’ultimo film postumo di Kim Ki-duk presentato Fuori Concorso a Venezia. Un titolo che tocca la fine e poi torna al principio. Call of God è un piccolo film in bianco e nero, dalla durata ridotta, con una trama tanto esile da essere evanescente. Grazioso, crudele, a tratti violento, depositario di una purezza cristallina. Quelli di Kim Ki-duk sono sempre film d’amore. Per una donna, per una terra, pieni del bisogno di liberare nello sguardo le energie di un’emozione selvaggia, incontrollabile. Scritto e girato dal regista, il progetto è stato completato dopo la sua scomparsa nel dicembre 2020 dai suoi collaboratori più stretti, stavolta in un paese lontano dalla Corea (una produzione targata Estonia, Lituania, Kirghizistan), con lo stesso innocente stupore e la stessa capacità di rendere il messaggio universale ovunque nel mondo.
Nell’opera del regista coreano c’è una cesura dovuta al trauma maturato dopo le riprese di Dream, un incidente avvenuto sul set che ha quasi provocato la morte della protagonista, sublimato tre anni dopo nel catartico e sofferto Arirang. Da Dream questo ultimo lavoro eredità la matrice onirica, il sogno però non è più la rappresentazione di una simbiosi eterea, diventa veggenza, premonizione. Call of God (Kõne taevast il titolo originale) ha due protagonisti, un uomo (Abylai Maratov) e una donna (Zhanel Sergazina), che si incontrano nei sogni della donna. Fin quando una misteriosa telefonata divina la desta dal sonno e le dice che il sogno diventerà reale ed andrà avanti finché lei ne abbia voglia.
Dicevamo dell’inizio. Regista autodidatta o quasi, il cinema di Kim Ki-duk soprattutto agli esordi è stato orientato alla spiritualità più che alla forma. L’eco della pulsione qui sembra arrivare direttamente da film come L’arco e L’isola, minimali, potenti, pieni di delicatezza e dolore, travolti da passioni irrefrenabili. Il canto disperato dell’amore, malato, osceno porta alla mente invece delle produzioni più recenti, da Pietà, premiato proprio a Venezia con il Leone d’oro, a Moebius, dove i corpi assumono già un altra consistenza formale e lasciano scie di sangue. Il condensato è una genealogia del desiderio, il colpo di fulmine, il primo bacio, l’erotismo dato contatto fisico, la pelle che scotta ad ogni piccola sollecitazione nell’amplesso. Poi la nemesi, gelosia, mania del controllo, ossessione, botte, e l’amara verità di un legame che invade l’animo e lo rende capace di azioni abiette. Per alcuni detrattori il limite del regista era in un fondo morale implicito, qui anche di questo non sembra restare traccia, cancellato da una scrittura scheletrica e dall’urgenza di codificare l’insondabile, di filmare la magia di un incontro nell’inconsistenza del reale, senza esprimere giudizi di merito, sospesi su una nuvola, privi di peso come succede in Ferro3. Una visione dell’amore massimalista, totalizzante, dettata dalla brama di suonare note ardenti e mandare a morte l’intera orchestra, l’unico spartito idoneo a placare un appetito inesauribile.

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La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
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Il voto dei lettori
3.75 (4 voti)
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