Calopresti ovvero dell'avventura cinematografica

Il regista incontra gli allievi della scuola di Sentieri Selvaggi, raccontando se stesso e il cinema italiano, tra sogno e realtà, tra impegno morale e scelte ardue.

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Il regista Mimmo Calopresti“Fare cinema vuol dire avventura”: così esordisce il regista Mimmo Calopresti durante l’incontro con gli allievi della scuola di Sentieri Selvaggi. Un’idea, questa di cinema come avventura, che sembra percorrere le sue parole, ricche di immagini e suggestioni. Un regista che, così come nei suoi film, anche nella sua professione presta particolare attenzione alle emozioni. Il cinema, dice Calopresti, è una follia, sempre a cavallo tra realtà e finzione: un mondo che esiste come reale solo nella mente di chi lo crea e di chi lo guarda, ma che in realtà è qualcosa di evanescente, di finto, che deve essere interpretato dal regista così come fa lo psicanalista con i sogni e le manie dei pazienti, così come faceva Calopresti stesso con le ossessioni di Angela (Valeria Bruni Tedeschi) nel suo La parola amore esiste.

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Come ogni avventuriero che si rispetti, il regista deve essere in grado di rischiare. Nell’attuale panorama italiano, chi fa cinema deve essere una sorta di esploratore: cercare l’idea giusta per un film, magari a partire da una frase o da un incontro quasi casuale, cercare i luoghi giusti dove girare, cercare l’inquadratura più adatta e, soprattutto, cercare un produttore. Al cinema italiano, si lamenta il regista, manca questa figura, indispensabile nel processo creativo, manca qualcuno in grado di prendersi le proprie responsabilità e di sostenere scelte morali, come invece accade (ma è ancora così?) nel cinema americano. Fare cinema vuol dire anche scegliere di sostenere un’idea, come il regista ha fatto sin a partire dal suo primo lungometraggio La seconda volta, un film che nasce dalla sua esperienza alle Carceri Nuove di Torino e dall’incontro con una ex-terrorista. Un argomento forte, forse troppo scomodo per il cinema italiano degli anni Novanta, ma che Calopresti ha continuato a portare avanti. Finché la sua determinazione è stata premiata: l’avventuriero ha trovato un suo tesoro in Nanni Moretti, che ha prodotto ed interpretato il film.

Mimmo Calopresti e Adriano Panatta sul set di La Maglietta Rossa

 

L’avventura è proseguita nei suoi lavori, sia di fiction che documentari, fino al più recente La maglietta rossa, presentato in anteprima alla fine dell’incontro. Chi rischia qui è il tennista, Adriano Panatta, vincitore della coppa Davis nel 1976 in Cile, proprio nel periodo della dittatura di Pinochet. La sua maglietta rossa rappresentò una provocazione che fece storia, una scommessa ardita, come le imprese compiute sul campo: dagli esordi nel quartiere Flaminio di Roma, raccontato dal regista con l’affezione per i luoghi che caratterizza anche il suo cinema di fiction, alle sfide contro i grandi del tennis come McEnroe e Borg. In fondo, quando si sta sul campo, non si può mai sapere come la partita andrà a finire, ma si può sempre scegliere di attaccare e prendere in mano la situazione. Ci si gioca tutto e per tutto, fino all’ultimo match point. È quell’ultimo punto che ti cambia la vita. Proprio come il cinema.  

 

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