Cam, di Daniel Goldhaber

Un esordio tra thriller, porno, mystery e turbamento distopico per Daniel Goldhaber (e Isa Mazzei), che satura la distanza reale/virtuale e sguinzaglia i peggiori “doppelgänger” del web. Su Netflix.

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Cam avrebbe potuto essere concepito come film documentario, come indagine cioè sui modi di vita e le vicissitudini delle lavoratrici dell’intrattenimento porno via webcam. Il film è, per l’appunto, scritto dal regista Daniel Goldhaber – qui in un ottimo esordio al lungometraggio – insieme a Isa Mazzei (in collaborazione con Isabelle Link-Levy), ispirandosi alle vicende dell’amica stessa, ex camgirl e conoscitrice del panorama porno online. E invece, Cam è diventato un puro prodotto di fiction targato Blumhouse/Netflix, una sorta di thriller erotico-psicologico dalle avvolgenti vibrazioni distopiche, tenuto efficientemente in piedi a furia di sguardi, schermi e immagini duplicate.

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È già l’incipit che suggerisce il doppio volto connaturato all’idea stessa del film: quando l’inquadratura della camera in rosa – ancora vuota – della protagonista si allarga, lasciando spazio e visibilità alla schermata della chat del sito “Freegirls.live”; suggerendo intanto, con tale operazione, la centralità dell’occhio voyeuristico, che è quello dell’utente tipo del suddetto sito e alla pari dell’internauta tout court e, dunque, il nostro. Goldhaber/Mazzei chiamano così in causa lo spettatore senza troppi “preliminari”

costruendo abilmente un gioco di inquadrature oscillanti tra realtà – la Lola in carne e ossa nella stanza, che prepara il suo “Orgasmo show” – e immagini schermate della chat, ove Lola è già preliminarmente duplicata, viva e morta al contempo nel suo spettacolo suicida dato in pasto all’arena affamata del cine-web.
L’immagine continua a sdoppiarsi, dentro e fuori la rete, nel tempo della connessione perenne: Lola, fuori dalla porno chat della quale si serve per lavoro, è Alice Ackerman (Madeline Brewer), giovane donna che gode delle meraviglie offertegli da questa attività di business fortunato; una Alice “attraverso gli schermi”, smembrata e ricomposta in una simulazione di sé distante dall’io della realtà. Finché lo spazio di stacco costruito tra Alice e Lola nella salvaguardia della propria condizione sociale, si satura e il sogno sfiorato della Top50 si frantuma tra le pareti della vita reale.

Il baratro del black mirror – che sembrava fino a quel momento inconsistente – squarcia la realtà e si sostituisce ad essa: il doppio digitale di Alice diventa spettrale doppelgängerSalve, benvenuta su Internet!»), munito di un corpo e un volto reali costruiti come puzzle di immagini e video della vita in rete, quella che non si cancella mai davvero e che, al fondo, segue regole misconosciute ai più («Ho visto abbastanza per indovinare chi sceglierà, ma non so cosa sia o come funzioni»).
Il pericolo tecnologico – e il concreto furto dell’identità – diventa palpabile attraverso un ritmo registico di crescente tensione e seguendo il criterio del “campo assoluto: quando il fantasma dell’aldilà entra fisicamente in questo mondo (e in questa stanza), quando la copia è fatta meglio dell’originale, quando lo schermo diventa specchio nero debordante e ipertrofico e il bot che lo abita finisce per negare la sembianza del corpo reale.
Perché, in fondo, anche dopo il faccia a faccia (rigorosamente allo specchio) nello scontro finale, Alice non riuscirà a recuperare la sua vera identità perduta nell’etere: truccata di tutto punto dalla madre, imparruccata, con un nome falso, in una stanza che ricopre di blu le spoglie della precedente, ella torna nella chat come “Eve-Bot”. Copia di copia. La prima donna (ri)nata è postumana.

 

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=pN8xZ5WDonk]

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