Cane randagio, di Akira Kurosawa
Non è solo il precursore del buddy cop movie: è una finestra sulla capacità del maestro di radicare le crisi dei protagonisti in un contesto sì autoctono, ma sempre irradiato di un afflato universale

Lo smarrimento improvviso della pistola è vissuto dal giovane detective Murakami (Toshirō Mifune) alla pari di un processo di disgregazione: della sua identità di poliziotto, di uomo e soprattutto di difensore di quella collettività che è chiamato, dato il suo ruolo, a difendere dai raggiri dei criminali. Nulla può davvero placare il malessere che lo sta divorando dall’interno, se non il recupero della colt che gli è stata sottratta, nell’incipit di Cane randagio, mentre era sull’autobus, e che adesso deve a tutti i costi ritrovare, se non vuole che quell’oggetto, non più declinato per un uso virtuoso, si trasformi in uno strumento di morte. Ed è a partire da questo dissidio interiore, dalle fratture interne di un animo che si trova costantemente sul punto di implodere, che Kurosawa delinea un noir lancinante, fondando nel contempo le basi (linguistiche, e in parte anche estetiche) del buddy cop movie, di cui questo film è il vero antesignano: ed è probabile che Walter Hill, ben 33 anni dopo, sarebbe arrivato a guardare alle dinamiche relazionali tra i due protagonisti di Cane randagio, per poi codificare, con il suo 48 Ore, il genere appena citato.
Ogni opera di Kurosawa, da questo punto di vista, può essere giudicata – almeno ad un livello di superficie – per le influenze che ha generato sui registi del futuro e sulle cinematografie in cui si trovano ad operare. Da Vivere a I sette samurai, fino ad arrivare a Yojimbo e a La fortezza nascosta, si tende sempre ad individuare l’avvenirismo e l’eredità (culturale e cinematografica) di tali testi, nella naturalezza con cui alcuni dei più grandi cineasti della storia sono arrivati deliberatamente a trafugarli, non solo per dare vita ai loro lavori, ma per codificare talvolta le stesse espressioni poetiche del loro cinema (si pensi, primo fra tutti, a Sergio Leone). Un discorso che può essere avanzato anche per quel che riguarda Cane randagio, oggetto di remake in diversi paesi asiatici, e omaggiato da una leggenda come Johnnie To nel suo memorabile PTU: un vero e proprio omaggio all’arte di Kurosawa, e alla capacità, senza pari, del maestro nipponico di trovare l’umanismo nell’abisso più profondo della psiche umana, e di declinarlo in mondi innervati di un respiro talmente vitale, da risultare tangibili. Materici. Fenomeno che il regista, come nessun altro riuscirà mai più a replicare, riesce a veicolare allo spettatore grazie alla strumentalizzazione, in termini drammatici, degli agenti atmosferici e delle condizioni ambientali.
La Tokyo in cui si muovono i protagonisti di Cane randagio, dal sottobosco cittadino agli spazi di aggregazione pubblica fino alle stanze istituzionali, è qui equiparata ad un inferno terreno: quasi come se gli spettatori, alla pari dei personaggi, condividessero anche loro i disagi provati da Murakami e dal collega Sato (Takashi Shimura), proprio grazie alla maestria con cui Kurosawa usa, in funzione drammaturgica, i raggi del sole che irradiano ogni singolo angolo della capitale giapponese, tanto da complicare, e rendere ancora più pesanti, i passi dei due detective. E più il protagonista insegue le tracce che lo porteranno dal fuorilegge che è entrato in possesso della sua colt, più il suo conflitto viene percepito con un trasporto progressivamente più doloroso dal pubblico: avvolto, come Murakami, in una spirale narrativa vertiginosa, che ha tanto il sapore di una libera discesa all’Inferno.
Ma Akira Kurosawa non ha “solo” dalla sua un vocabolario estetico senza pari: perché il suo spartito espressivo, la cifra che contraddistingue ogni opera della sessantennale filmografia del maestro, la ritroviamo in una capacità unica di scardinare le crisi psichiche ed esistenziali dell’individuo, e di stagliarle sullo sfondo del contesto societario – in questo caso, il Giappone postbellico – in cui si inabissano: un orizzonte che nonostante la distanza (spaziale, temporale e culturale) ci appare però sempre familiare e vicino, grazie alla radicalità con cui Kurosawa sovrappone il malessere collettivo di una nazione ai dilanianti disagi vissuti, nella sua intimità, dal protagonista. Ed è così che Cane randagio, mostrando la disperazione di un uomo in preda all’umiliazione, ci offre un ritratto deflagrante della condizione umana del cittadino giapponese del dopoguerra, senza mai confinare tali discorsi alle sole peculiarità socio-esistenziali del Sol Levante. Tanto che le riflessioni qui proposte da Kurosawa, in piena continuità con quelle avanzate nei suoi film precedenti o successivi, appaiono così radicali proprio perché attraversate da uno spirito universale. E perciò sono comprensibili, e quindi ri-utilizzabili, da chiunque le voglia rimettere in scena, al di là del contesto o dell’orizzonte cinematografico in cui si opera.
Ma da dove viene questo spirito universalista alla base di Cane randagio? La risposta all’interrogativo la troviamo nei linguaggi del film. Qui il maestro, per mezzo della complicità emotiva che arriva ad instaurare tra il giovane e disperato detective e il suo stoico e imperturbabile collega, fa assurgere il conflitto del protagonista a vette quasi inarrivabili anche grazie alle dinamiche del contrasto: tanto che il confuso Murakami, convinto nel buon esito della sua missione dalla fermezza encomiabile di Sato, vedrà il suo conflitto acuirsi proprio perché sarà la sua negligenza a mettere in pericolo la vita del rispettato “mentore”. Un dualismo che verrà preso d’ispirazione da tutti coloro che, da quel momento in poi, racconteranno – chi attraverso i registri della commedia, chi mediante l’estasi dell’action – le storie di coppie di agenti apparentemente incompatibili e che individuano, nelle loro supposte differenze, le ricette stesse con cui affermare la propria identità di uomini, di poliziotti e di colleghi. Quelle immagini, cioè, che il protagonista di Cane randagio rischia costantemente di veder sparire, inabissando lo spettatore in un viaggio emotivo tanto intenso quanto liberatorio. E di cui non si vorrebbe vedere mai la fine.
Titolo originale: Nora Inu/野良犬
Regia: Akira Kurosawa
Interpreti: Toshirō Mifune, Takashi Shimura, Keiko Awaji, Eiko Miyoshi, Noriko Sengoku, Noriko Honma, Reikichi Kawamura, Chōko Lida, Eijirō Tonō, Yasushi Nagata, Kappei Matsumoto, Isao Kimura, Teruko Kishi, Minoru Chiaki, Ichiro Sugai, Gen Shimizu, Kan Yanagiya, Reizaburo Yamamoto
Distribuzione: Cineteca di Bologna
Durata: 122′
Origine: Giappone, 1949