CANNES 56 – "Arimpara" di Murali Nair

Terzo, graffiante film per il regista indiano Murali Nair (con Il trono di sangue ha vinto alcuni anni fa il Torino Film Festival) che in Arimpara ritorna a raccontare una storia dipinta con la crudele ironia di un cinema che accetta di osare spingendosi fin oltre gli sviluppi prevedibili del grottesco.

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Una storia che inizia dalla fine e che finisce ricominciando, tra analisi sociale e politica che si fa sempre più corrosiva. Un proprietario terriero vive con piena soddisfazione le serena atmosfera della sua condizione privilegiata; è padre attento e marito amorevole, ma, fin da subito, lascia trasparire dai suoi gesti convenzionali, una doppia natura tenuta come nascosta sotto la superficie brillante, le immagini piene e i colori nitidi nella loro definitezza. Calma e serenità a profusione, dunque, ma le cose sono pronte a cambiare radicalmente e a trasformarsi nel loro opposto più nero, a partire da una piccola macchia sul volto del protagonista che cresce senza controllo, fino a farsi mostruosa creatura animata e autonoma dal corpo che l'ha originata. Viene in mente L'Acchiappasogni (e con esso il b-movie che non disdegna l'effetto, anche rozzo e facilmente smascherabile, ma anche, ovviamente, Cronenberg) con l'intervento che torna a farsi devastante sul corpo, il mostruoso che da esistenziale si fa fisico, oggetto da toccare, sentire e da cui essere minacciati. Riflessione aspra attorno al potere e alla sua forza distruttiva, fino allo scavalcamento dei ruoli, o meglio, allo slittamento dei riferimenti tradizionali che vengono travolti e riletti. Eppure lo sguardo di Murali Nair resta quello di sempre, semplice, a volte piacevolmente didascalico, nel raccontare una favola nera che, alla fine, non ha inizio ne' fine, ma si alimenta del suo stesso svolgimento, muta in rapporto al mutare dei corpi e del loro stare vicini o lontani, tra loro, e l'uno in rapporto agli altri, si fa morboso nell'ispessirsi dell'ombra e nel diradarsi della luce, inventa un movimento che e' indicazione del progerssivo dilatarsi del malessere. Fino all'annullamento nella sabbia del deserto, nel prosciugarsi dei colori sotto il sole, come un monito antico e nuovo, sorta di invito, ancora una volta, alla semplicita' della ragione e alla trasparenza del pensiero.

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