CANNES 56 – "Elephant" di Gus Van Sant (Concorso)

Breve (80'), dolce e monocorde, come un disco degli Husker Du.
Gus Van Sant è il rovescio di avvoltoi quali Larry Clark e soci, è il canto d'amore che si contrappone agli apocalittici mitteleuropei stile Haneke o Seidl; senza essere da meno nel "filmare il corpo" o nella "ambientazione sociale".

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Grazie. E' il primo impulso che insorge verso un regista che da sempre guarda all'adolescenza con rispetto e dolcezza, che non usa il (così/sempre detto) "mondo giovanile" per costruire proclami o fare semplicemente spettacolo, ma ci si cala completamente, cercandone lo sguardo e provando a captare le "situazioni". Gus Van Sant è il rovescio di avvoltoi quali Larry Clark e soci, è il canto d'amore che si contrappone agli apocalittici mitteleuropei stile Haneke o Seidl; senza essere da meno nel "filmare il corpo" o nella "ambientazione sociale".

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Elephant è un film tutto suo; scritto, diretto e montato dal regista di Louisville, che da sempre cerca l'empatia con gli adolescenti americani facendone i protagonisti delle sue storie, da Drugstore Cowboy a Belli e Dannati, Da Morire, Cowgirl o Will Hunting, e che questa volta sembra quasi essersi sentito il "dovere" di ritornare su un  evento (immaginiamo) epocale per i "kids" statunistensi: la strage della Columbine. Il titolo è preso da un documentario sulla violenza in una scuola irlandese dell'inglese Alan Clarke, ma Van Sant si rifà anche ad una parabola buddista, in cui un uomo cieco è convinto di conoscere la vera natura dell'elefante basandosi sulla parte che ne sente al tatto, quindi è convinto che sia come un serpente, un albero o altro senza mai afferrarne il tutto.


Gus seziona come il cieco il corpus/campus dell'universo "giovanile" e scende tra John, Eli, Nate, Michelle e gli altri protagonisti di Elephant (tutti attori non professionisti che nel film conservano lo stesso nome) in una giornata apparentemente normale; si affida spesso alla steadycam per seguirne gli spostamenti, frammenta lo spazio/tempo cercando e filmando tutti i punti di vista sulle stesse azioni. Ma non è un film di forma, anche se il "marchio autoriale" è ribadito nella scelta di girare nel formato 1:33, oggi usato soltanto da Straub-Huillet, e non il canonico 1:85, è innanzitutto un film sentito, che guarda svilupparsi una tragedia tra chiacchiere quotidiane, football, e abitudini di normali adolescenti.

Van Sant, vero alternativo nella cultura americana, non è morale. Eric e Alex, autori della strage, sono visti come gli altri; "quella mattina" giocano al computer, suonano il pianoforte, coltivano la loro passione per le armi: normale in un Paese che le vende  per corrispondenza mentre alla televisione manda documentari sui metodi di propaganda nazista. Il problema è proprio nel mondo che appare sempre sfocato sullo sfondi di corpi vivi, che si portano addosso il peso di genitori come il padre di John, "il responsabile" del film (c'è lo sportivo, il fotografo, il punk…), unico superstite, che lo guida (letteralmente, gli toglie di mano il volante) all'inizio come alla fine. Se c'è salvezza questa è proprio nei ragazzi, è il messaggio di Van Sant, l'unico, in un film girato tutto in campo medio, metafora della media età (e della parabola buddista, sfondo e totali sempre sfocati) che ci racconta che si aggiunge alla sequenza delle nuvole che si addensano prima del temporale. Breve (80'), dolce e monocorde, come un disco degli Husker Du.

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