CANNES 57 – Festival politico?

Al di là delle intenzioni, vere o presunte di Tarantino, la Palma d'oro a "Fahrenheit 9/11" di Michael Moore lascia trasparire un segnale politico forte, evidente. Moore star del pubblico francese che gli ha tributato l'applauso più lungo ma è entrato anche nel mirino di Jean-Luc Godard e del ministro Giuliano Urbani. Vediamo come.

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Tarantino aveva fatto capire che cinema e politica sono due cose differenti. E lui, come presidente della Giuria, avrebbe dato certamente la precedenza al cinema. Ora, dopo la Palma d'Oro assegnata a Fahrenheit 9/11 di Michael Moore, gli intenti de regista di Kill Bill sembrano essere contraddetti dal verdetto. A questo punto le cose sono due. O Tarantino ha bleffato alla grande oppure in giuria (o da qualche altra parte) hanno orientato alla grande il massimo riconoscimento verso Michael Moore. Ci sono immagini contrastanti della premiazione: 1) Tarantino scuro in volto che entra assieme agli altri componenti della giuria al Grand Théatre Lumiére prima della premiazione. 2) Tarantino sorridente che si mette a scherzare con Moore. Delle due l'una. Nel corso delle giornate del festival si vociferava anche che il Presidente della Giuria avesse particolarmente amato il coreano Old Boy di Park Chan-wook, opera delirante e necessariamente sanguigna da poter essere istintivamente divorata dal suo sguardo onnivoro (come i film e le musiche divorati nel corso degli anni e ri/sputati dentro i due Kill Bill) che non a caso ha ottenuto il Gran Premio della Giuria. Spingendosi a fare delle illazioni, potremmo metterla così. Tarantino, di testa sua, avrebbe premiato Old Boy. Il resto della giuria, l'opinione pubblica, certa stampa hanno invece spinto verso Fahrenheit 9/11, opera che comunque a Tarantino è piaciuta.

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Chiaramente la presa si posizione di Cannes nei confronti del film di Moore è netta.  Del resto il film funziona alla grande nello smascherare Bush e il sistema capitalistico statunitense che ha visto nella guerra contro l'Iraq un vero e proprio affare.  L'accoglienza del pubblico francese poi è stata trionfale. Dopo la proiezione di Fahrenheit 9/11, la troupe è stata letteralmente presa in ostaggio dagli spettatori che gli hanno dedicato l'applauso più lungo del festival, durato oltre 20 minuti.  Certo, non sono mancate le polemiche. Godard, nella conferenza stampa di un'altra fondamentale opera politica come Notre musique ha affermato che in realtà Michael Moore fa il gioco di Bush. Opinione reale o gusto della provocazione?


Comunque la linea della giuria si è mossa in una direzione politica anche nella premiazione di un film come Exils di Tony Gatlif (premio per la regia), opera sulla memoria rimossa (la guerra tra Francia-Algeria), su una crisi di identità familiare ed etnica che coinvolge le generazioni successive. A tratti discontinuo, il film di Gatlif ha però il merito di abbattere le frontiere, di spingere i due protagonisti dentro il proprio passato e dentro terre solo apparentemente lontane.


Appaiono poi piuttosto felici le scelte di premiare Yagira Yuuya, il bravissimo protagonista di Nobody Knows di Kore-eda Hirokazu, pellicola che certamente avrebbe meritato una maggiore considerazione nel Palmares, un'intensa Maggie Cheung, interprete del vibrante Clean di Olivier Assayas e addirittura coraggiosa quella di dare il premio della Giuria all'altrettanto coraggioso film thailandese Tropical Malady di Pichatpong Weerasethakul, pellicola fatta di suoni e odori un una foresta che diventa luogo di straordinaria perdita di orientamento. Al contrario invece risultano più tradizionali e compromettenti i premi alla bella e chiusa sceneggiatura di Agnés Jaoui e Jean-Pierre Bacri in Comme une image, film che avrebbe potuto essere maggiormente valorizzato nelle mani di un regista più esperto e quello della giuria (ex-aequo con Tropical Malady), per The Ladykillers di Joel Coen, che ha perso tutta la carica eversiva dell'originale di Mackendrick del 1955 per chiudersi dentro un formalismo sempre più compiaciuto.


 


Nel segno di Michael Moore dunque. Nel segno di un film che, prima del festival di Cannes non aveva trovato ancora un distributore negli Stati Uniti e che racconta il proprio paese con un'aggressività diretta in cui il documentario diventa un mezzo di protesta piuttosto che un genere cinematografico. Fahrenheit 9/11 dà un'impronta politica a Cannes. Al di là dell'esito finale, l'ha data sia in sala sia fuori il Palais, con gli "intermittents" che sfilavano e hanno assunto il cineasta del Michigan come loro beniamino. L'impronta è così evidente tanto che anche il ministro Urbani ha voluto polemizzare con l'esito finale di questa 57a edizione avvertendo che Venezia preferisce premiare i film d'arte. Anche Tarantino, prima della serata conclusiva, aveva detto più o meno la stessa cosa.


In un festival dove sembra che i costi del budget si siano elevati per ospitare le grandi star, tanto che è stato tagliato quasi un giorno dal programma – la premiazione si è svolta infatti il sabato invece che la domenica – alla fine l'anima provocatoria di Moore primeggia smontando e ricomponendo il volto di Bush, ideale premio per il miglior attore comico. Anche questo è cinema. Fortunatamente.

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