CANNES 57 – La povertà nelle strade filippine e il ritorno del manga

Sorprende sempre la modernità del manga "Innocence" di Mamoru Oshii, proiettato in concorso e il neo/realismo tra amore e miseria di "Babae sa breakwater" del filippino Mario O'Hara

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Il mancato arrivo della pellicola di 2046 di Wong Kar-wai ha creato un ribaltone nel programma del festival. Il film annunciato per la mattina del 20, verrà proiettato contemporaneamente sia per il pubblico sia per la stampa alle 19.30 in due sale differenti. Per il pubblico al Grand Théâtre Lumiére, per la stampa alla sala Debussy. Risultato: per la conferenza stampa, che ci sarà domani e di cui si parlerà sabato, rischia di esserci meno attenzione perché a 2046 si sovrapporrà lo spazio occupato  dagli altri film della giornata di domani che per altro rappresenta l'ultima ufficiale del festival, visto che quest'anno la premiazione ci sarà il sabato e non la domenica.

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Per il concorso, dopo Shrek 2, è stato presentato il secondo cartoon della competizione ufficiale, Innocence di Mamoru Oshii, "sequel fantomatico", più trasversale che diretto di Ghost in the Shell, realizzato dallo stesso regista giapponese nel 1995. In pieno inserito dentro le forme del manga, Innocence rappresenta una società futuristica – l'anno è il 2032 – dove è scomparsa ogni distinzione tra l'uomo e la macchina. Gli esseri umani ormai coabitano con i cyborg (umanoi con il corpo completamente meccanizzato) e con dei robot integralmente artificiali. In questo prospetto il cyborg Batou va invece alla ricerca delle residue tracce di umanità rimaste sulla terra. Manga dolente e fortemente cupo dove l'estetica del cyberpunk viene trasferita in forme animate dove regnano l'oscurità e dei tratti segnici inizialmente massificati,  fortemente delineati che aspirano alla ricerca del ritrovamento di una loro antica mobilità. L'opera di Mamoru Oshii si muove efficacemente sulla linea della memoria, del ricordo, elementi che frantumano progressivamente quella glacialità visiva con una visione sempre di sorprendente modernità.


L'altra sorpresa del festival viene dalla "Quinzaine des réalisateurs" ed è rappresentata dal filippino Babae sa breakwater di Mario O' Hara. Il film vede protagonisti Basilio e suo fratello che si sono trasferiti a Manila alla ricerca di una vita migliore. Lì entrano in contatto con Paquita, una ragazza costretta sin da giovanissima a prostituirsi e che è continuamente minacciata e utilizzata da un boss che terrorizza il luogo, un ex-poliziotto diventato infermo in seguito a un colpo di fucile. Sguardo neo/realista sulla povertà nelle Filippine (dove il 41% della popolazione vive sotto la soglia minima di sopravvivenza), dove i personaggi si portano nei loro volti i segni della malattia (le piaghe sulla pelle di Paquita) e della fame. Film duro di una crudeltà che non concede speranza che ha echi del Bunuel messicano (in particolare I figli della violenza) ma anche pieno di uno slancio zavattiniano nei confronti dei personaggi che restano continuamente legati in quella striscia di terra nei pressi di una spiaggia dove sono soliti radunarsi. O'Hara mostra una forte vitalità, lascia ritornare l'elemento come segno (l'acqua del mare, ma anche l'acqua della nascita) e crea degli intervalli cantati che allentano la tensione e lasciano scivolare l'opera verso forme provvisorie tra il musical e la favola.  

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