Cannes 57 – "Passages" di Yang Chao (Un Certain Regard)

Una giovane coppia in fuga verso mete e progetti imprecisati. Road movie disperato l'opera prima del trentenne cinese ci conferma che la "Cina è vicina", più di quanto crediamo o sia stato immaginato in passato

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Curioso che come nella passata edizione di Cannes uno dei primi film in cui ci imbattiamo sia un "nowhere road movie", opere di giovani autori e con giovani attori che fuggono verso mete nebulose, mossi più dall'angoscia che dalla speranza di trovare un qualcosa che si possa chiamare futuro nonostante. Passages, opera prima del cinese Yang Chao, come lo scorso anno l'argentino La Cruz del sur, è presentato nel concorso parallelo Un Certain Regard, in cui si ritrovano giovani autori accanto a nomi conosciuti e acclamati come Abbas Kiarostami, o outsider della regia come Castellitto. Diversi in tutto, dalle latitudini alla costruzione del plot, dalla gestione degli spazi/tempi alla fotografia, opere come queste, che in Italia trovano corrispondenze nel primo Ferrario de La fine della notte, mostrano come quell'indefinibile sentimento di abbandono e ribellione, ricerca e dispersione che ben conoscono tanti di noi nati/cresciuti nel post '77, tanto per citare una data italiana che segna l'avvento non del post-rivoluzionario ma del a/rivoluzionario, non conosca confini e contorce in spirali da Urlo di Munch senza distinzioni di razza o cultura.

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Si Xu e la sua ragazza sono comuni liceali di provincia che troviamo già in fuga all'inizio della notte/film, impegnati ad arrampicarsi su mezzi di trasporto occasionali, dormono per strada, parlano poco e prospettano l'arrivo in una città oltr'acque. Una volta qui si ritrovano ovviamente impreparati ad affrontare un mondo putrido e acquitrinoso che non li accoglie e in cui si stagliano come fantasmi, infagottati nei vestiti e impegnati in un estenuante stop&go. Più che coinvolti nella fuga ci ritroviamo a seguirli con l'occhio distante del regista che a metà film ci riporta al paesino di partenza, a famiglie di madri penitenti e padri che si ingozzano di birra, a una scuola lager che il futuro ti invita a scriverlo su un foglio o a inventarlo a lume di candela in laboratori sotterranei come fa Si Xu, troppo speranzoso di ricavare proventi dalle sue misture.


Nel movimento pendolare che il giovane regista cinese costruisce ad ogni sequenza, ribadendo la struttura infinita del film esprimendo una sindrome di Penelope che si risolve in continue ripartenze non possiamo che riconoscerci. Ed è bello scoprire che abbiamo fratelli anche in oriente, che Debord vedeva bene il doppio capitale diffuso/accentrato nelle apparenti differenze democrazie/comunismo… Ma nelle fughe bisogna coinvolgersi, perchè la semplice osservazione rischia di ridursi all'affresco che i nostri "padri" si ripetono a vicenda in stanchi dopopranzi domenicali (tant'è che il film è piaciuto molto agli "adulti"), senza che a noi rimanga qualcos'altro se non il cielo plumbeo, l'abbandono, la silenziosa e solitaria angoscia (dell'accettazione o della scomparsa?) che è molto più forte prima e dopo il film.


 

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