CANNES – 58 "Don't come knocking" di Wim Wenders (Concorso)

Nel film di Wenders c'è un movimento dall'interno all'esterno, un voler star fuori, tra cielo e terra; il tentativo di riprodurre il desiderio inesauribile di aprirsi alla vita, senza dimenticare il cinema (la circolarità che ci riporta presenti all'inizio del film). Wenders riesce a filmare il "presente del presente" nel continuo scorrere del tempo.

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Tra cielo e terra. Il Festival sta per finire, buona parte è finita, passata, ciò che ne resta finirà; ancora il movimento della vita, fatta di ricordi, di istanti, di attese, del tempo (come unica cosa) che ci appartiene, come di ciò che si vede del/nel cinema, dopotutto lo sguardo/il corpo è il nostro modo di essere/avere al/un mondo. Allora tutto è visibile nel(lo scorrere del) tempo. In Free zone di Amos Gitai il movimento del tempo appare bloccato, privo di ogni attesa del futuro, chiuso nel tentativo desolato/dolente di cambiare il passato. Nel film di Gitai la linearità del tempo è spezzata; l'unico movimento davvero filmabile è quello del presente e del passato o meglio del "presente del passato" (le lunghe sovrimpressioni iniziali). Gitai filma ciò che non si può/riesce a dimenticare, quindi nel suo ricordare non c'è redenzione, nel suo film non si ricorda per strappare il vis(su)to all'oblio. Non così in Broken flowers di Jarmusch, piccolo/grande film, che vuole filmare il nostro essere vivi nell'attesa (del futuro), negli istanti che costituiscono il "presente del futuro" (l'attesa che il figlio possa ri-velarsi agli occhi "presenti" del padre, al non ancora vis(su)to da Don (Bill Murray). Il regista americano filma la rottura, la crisis, dello sguardo perso dietro il corpo (dis)seminato del figlio, assente, mancante all'inesauribilità del desiderio di continuare a vivere (oltre i limiti del tempo filmabile dal cinema?). Jarmusch è lontano dalla remissione del figlio al padre di Van Sant in Last days (fuori traccia desiderante?), che brucia gli ultimi giorni nella (in)consapevolezza che il tempo è (realmente) finito.

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Nell'attesa di Three times, (i) tre tempi (di un in-finito essere presenti alla vita?) di Hou Hsiao Hsien, abbiamo visto, entusiasti, in concorso Don't come knocking, l'ultimo film di Wim Wenders, già vincitore della Palma d'oro a Cannes nel 1984 col film Paris, Texas. Don't come knocking ci racconta di Howard Spence (Sam Shepard), attore di numerosi film western, ormai costretto a parti secondarie; un giorno, abbandonato il set senza preavviso, si reca a visitare l'anziana madre (Eva Marie Saint), dalla quale scopre di essere padre; da qui Wim Wenders parte per mostrarci la storia intima di (un altro) padre alla ricerca del proprio figlio, del frutto del proprio seme, fecondato/raccolto nella morte del sé (la canzone cantata da Earl/Gabriel Mann, il figlio di Howard). Nel suo film Wenders recupera gli spazi aperti e il motivo del viaggio, della ricerca di sé e dell'incontro con l'altro. Le sequenze iniziali negli spazi luminosi e vasti del Montana sono un presentimento del suo cinema (la breve passeggiata di Sam Shepard sui binari della ferrovia nel deserto ricorda quella di Harry Dean Stanton in Paris, Texas). Ancora, in queste sequenze sembra di (pre)sentire tutta l'emozione del cinema, l'esposizione dei corpi attoriali al suo movimento, fino a rivelarne l'illusione, la finzione, la creazione dei phantasiai nell'uscita/fuga del protagonista dal set del film nel film (il titolo del film in lavorazione è Il fantasma dell'Ovest), un movimento dall'interno all'esterno, un voler star fuori, tra cielo e terra, di ciminiana memoria; il tentativo di riprodurre il desiderio inesauribile di aprirsi alla vita, senza dimenticare il cinema (la circolarità che ci riporta presenti all'inizio del film). Così Wenders riesce a filmare il "presente del presente", nel continuo trascorrere (tra cinema e vita) del tempo.

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