CANNES 58 – "Down in the valley" di David Jacobson (Un certein regard)

Nel suo film David Jacobson tocca i corpi e si allontana, lasciandoli soli, senza il conforto di uno sguardo cui potersi donare. Davanti allo scorrere di questo cinema il nostro sguardo non riesce ad essere "estatico", fuori di sé, a "perderesi" negli occhi di chi vede/vive per noi un altro mondo.

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Distanze. Nel cinema tutto fugge, si perde, diventa traccia di ciò che è stato, di istanti distanti, perché in continuo movimento, sempre pronti a perdersi nella profondità del fuori campo, come la vita vis(su)ta, trascorsa, passata e custodita nella nostra memoria, che non sempre sa o vuole ricordare/redimere, (ri)accordare i battiti del proprio cuore al tempo perduto/ritrovato. Tutto questo ci affascina e rende il cinema tanto simile alla vita, alla nostra vita, alla ricchezza delle sensazioni, che il nostro corpo dà e riceve dall'ambiente che lo circonda, da quello spazio che si dà come condizione che nasce dall'interno, da ciò che di più implicito è in noi. L'emozione di seguire i sorrisi, gli sguardi, il profilo dei corpi amati, desiderati e (mai) assenti, oblia(n)ti, spesso lontani come i sogni al risveglio. Noi stessi vorremmo essere i destinatari di queste emozioni, essere il/in movimento per/dell'altrui desiderio, lasciare che gli altri possano affascinarci, legarci a loro, chiederci di muoverci verso di loro, come in un continuo dialogo con/dentro e fuori le/dalle immagini, in quella reversibilità chiastica che permette di ritornare a se stessi dopo essersi resi visibili agli altri, all'esistente. Nel film di David Jacobson, Down in the valley, presentato al Festival nella sezione "Un certein regard" non ci sono aperture, esistono solo chiusure, distanze. Davanti alla drammatica storia d'amore di Tobe (Eva Rachel Wood) e di Harlan (Edward Norton) il nostro sguardo non ha alcun tremito, resta impassibile, lontano, senza nessuna capacità di poter riannodare le smaglianti orditure dell'esistere, che pure dovrebbero appartenerci. Nel suo film la chiusura alle emozioni non è solo interna, ma anche rivolta all'esterno, al nostro sguardo, verso cui non c'è movimento. Jacobson tocca i corpi e si allontana, lasciandoli soli, senza il conforto di uno sguardo cui potersi donare. Davanti allo scorrere di questo cinema il nostro sguardo non riesce ad essere estatico, fuori di sé, a perderesi negli occhi di chi vede/vive per noi un altro mondo.

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