CANNES 58 – "Free Zone", di Amos Gitai (Concorso)

Conflitto infinito, cinema non definitivo, incompiuto perché non si può porre fine alle immagini, alle storie, agli inganni della storia e della memoria. A un passo dal capolavoro, zona franca rivendicata, terra promessa agognata dove c'è pace, niente barriere, ma negata la perfezione. Il cinema di Gitai: il più immenso dei sogni liberatori.

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Conflitto infinito, cinema non definitivo, incompiuto perché non si può porre fine alle immagini, alle storie, agli inganni della storia e della memoria. A un passo dal capolavoro, zona franca rivendicata, terra promessa agognata dove c'è pace, niente barriere, ma negata la perfezione perché si prosegue su una striscia, per un percorso lungo e tortuoso. La "free zone" esiste davvero: è a est della Giordania. Le persone dei paesi vicini come l'Irak, l'Egitto, la Siria e Israele, si ritrovano soprattutto per vendere e comprare auto. Ancora prematuro per pretendere qualcosa di più. Quella striscia di speranza è incastonata tra il piano sequenza di Alila e la storia dissezionata e compressa di Hotel Promised Land. Comincia con un piano stretto ed interminabile di Rebecca (Natalie Portman), giovane americana che piange all'interno di un auto per aver chiuso una relazione sentimentale. Prosegue scorporando quella linea documentaristica del precedente film e sceglie il cinema spasmodico, dove il viaggio cattura il senso d'urgenza e respinge l'iconoclastia classica della terra martoriata. Non è il conflitto interminabile che viene scandagliato (come in Kippur o in Kadosh), ma il campo ristretto che non cede neanche più un centimetro di libertà, (almeno per tutta la prima parte), attaccandosi ai personaggi ancora più di quanto Gitai non abbia fatto nei precedenti lavori. Con Hanna (Hanna Laslo) alla guida, Rebecca supera la dogana tra Israele e Giordania perché vuole liberarsi del conflitto interno, vuole raggiungere il suo equilibrio, conoscere la propria identità. Figlia di un israeliano e di madre americana, per la legge non può essere considerata ebrea, ma desidera comunque lasciare definitivamente l'occidente. Hanna ha un affare da sbrigare, deve recuperare in Giordania dei soldi per il marito che ha smesso di coltivare fiori e ha avviato un commercio di auto blindate per gli arabi. L'unica certezza in Israele è l"Intifada che ritorna sistematicamente a smorzare qualsiasi sogno di crescita e ti costringe a "barattare" il ferro con il colore dei profumi. La riadattazione del pezzo di Branduardi che chiude e apre il film non parte dal tapolino comprato per due soldi e mangiato dal gatto, ma dall'agnello, dalla vittima sacrificale, primo anello della catena insanguinata e reiterata. Le dissolvenze incrociate sui volti di Rebecca e Hanna o il ritmare della musica pop alla radio (subito dopo però interrotta dal consueto notiziario che possibili attacchi terroristici) spezzano l'oppressione, spalancano percorsi trasversali, frammentati, discontinui e rivelatori, (s)confinano il contemporaneo in aree caoticamente amorfe. La (ri)velazione è doppiamente ingannevole: il cinema non segue Rebecca in corsa verso gli spazi aperti e delle opportunità, ma resta chiuso in macchina tra Hanna e la moglie del suo debitore. Il cinema di Gitai non ha completato ancora il suo cammino, non è pronto a porre fine all'inganno: sul traguardo si blocca, come il più immenso dei sogni liberatori.

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