CANNES 58 – "Seven invisible man", di Sharunas Bartas (Quinzaine des Réalisateurs)
Tra i più graditi ritorni, quello del regista lituano: uno che preferirebbe lasciar perdere con il cinema. Era sparito nel 2000, dopo "Freedom". Vorrebbe definitivamente smettere anche perché ormai preso nella lotta per il ritiro russo dalla Cecenia. Autore eccezionale, che insegna come filmare il vuoto nel non compiacimento estetico.
Tra i più graditi ritorni (in attesa del georgiano Levan Zakareinshvili), quello del regista lituano: uno che preferirebbe lasciar perdere con il cinema. Sharunas Bartas era sparito nel 2000 dopo Freedom, presentato in concorso a Venezia. Si era visto come attore in Pola X di Leos Carax (le parti erano invertite ne La Casa del 1997), e poi nulla. Adesso vive a New York e vorrebbe smettere definitivamente con il cinema anche perché impegnato nella lotta per il ritiro russo dalla Cecenia. A Cannes è venuto più che a presentare, ad accompagnare il suo film. Dimesso, schivo, quasi infastidito da tanta gente, se potesse si renderebbe invisibile. Invisibile come i suoi protagonisti, che vivono ai margini. Un gruppo di donne e di uomini, nel sud dell'ex Unione Sovietica, in Crimea, si sente ostile al mondo senza esplicitarne i motivi. Questa loro ostilità spinge a liberarsi dalla giustizia e da se stessi. La fuga diventa un viaggio che si trasforma in un conflitto inevitabile con l'ambiente, perché non può essere pensato e costruito secondo i propri desideri. Cinema "patografico", scolpito dal tempo e dai sentimenti più reconditi. In una sorta di comune fatiscente, tra gli animali di campagna, Bartas non regala niente. Anche un bacio, una carezza, un pensiero espresso, arrivano dopo lunghi sacrifici, estenuanti sottrazioni estetiche. Non è forse tra i più ispirati film dell'autore, ma resta la poesia, la cinica consapevolezza dello sguardo che non smette mai di fagocitare i minuti che restano alla tragedia. Lontano da Dio e dagli uomini, con Bartas ti trovi catapultato in uno spazio uniforme (non importa se aperto o chiuso) dove la lingua parlata si fa letteralmente incomprensibile, ma assolutamente primordiale. Come in Tre giorni e Corridor (primi due film), in tutto il suo cinema senza fede né mistica, saltano le coordinate: non si parla di incontri, distacchi, relazioni. Piuttosto è il disperato tentativo di aggrapparsi a qualcuno o qualcosa. Immagine del vuoto nel non compiacimento per l'assenza di miserabilismo dell'abbandono.