CANNES 59 – "Buenos Aires 1977 – Cronica de una Fuga", di Israel Adrian Caetano (Concorso)

Per l'Argentina i ''desaparecidos'', da tempo, non sono piu' un tabu'. Il cinema a volte abusa nel ritornarci, come succede a Caetano. Resta a meta' del guado: non scava, non accarezza, ma gratta con le unghie lasciandosi irretire e compiacere da un acume osservativo che accumula e disperde.

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Dall'Italia all'Argentina. Un viaggio dall'altra parte del mondo, due Paesi così lontani, così vicini. Sul 1977 pero' la storia vira, la ricostruzione e' un'arma utilizzata in modi assai differenti. L'Argentina ha sempre trattato quel periodo che abbraccia l'anno precedente ai mondiali di Kempes e Passarella, pioggia purificatrice e salvifica. In questo Paese il cinema ha raccontato, anche mortificato a volte, il ricordo della dittatura militare, delle torture, degli assassini in nome della Patria conservatrice. L'Italia invece ha sempre preferito confrontarsi sempre piu' con il 68, dimenticando troppo spesso la portata politica, sociale e ideologica dei movimenti studenteschi del 1977. Il silenzio, pero', nel nostro Paese, non appartiene solo al cinema, riguarda buona parte della societa' civile, colpevole di non aver ancora inteso quanto dal 1976 al 1978, la nostra storia sia cambiata irrimediabilmente e senza possibilita' di ritorno. Non si tratta solo di parlare degli anni di piombo, delle stragi, degli attentati, del sequestro Moro, si tratta di scavare nell'intimita' di una terra alla quale e' stata probabilmente negata o addomesticata quella forza rigeneratrice e di rinnovamento che spirava sulle arti, nella scienza, nell'istruzione, sulle nostre teste. A tal proposito, ritorna in mente uno dei pochi (forse l'unico) tentativi cinematografici italiani degli ultimi anni: quello di Guido Chiesa con Lavorare con lentezza, che, citando Federico Chiacchiari, deve lottare per rappresentare niente, perche' come puoi rappresentare l'invisibile? In Argentina e' diverso, si abusa anche del cinema, non e' piu' l'argomento tabù, e allora spesso si resta a meta' del guado: non si scava, non si accarezza, ma si gratta con le unghie lasciandosi irretire e compiacere da un acume osservativo che accumula e disperde. E' cio' che e' successo al trentasettenne Adrian Caetano, regista di origini uruguage, ma argentino di adozione. Gia' presente a Cannes nel 2002, nella sezione Quinzaine, con Un Oso Rojo. Il suo film e' tratto da una storia vera e dal libro/diario di Claudio Tamburrini. Quest'ultimo e' stato sequestrato nel 1977 per 120 giorni, segregato in una casa isolata, utilizzata come quartiere generale. Insieme ad altri tre sventurati, dopo aver subito umiliazioni e torture ai limiti della sopportazione fisica, organizzano la fuga. In una Argentina in cui tutte le liberta' democratiche erano soppresse, dove la stampa veniva censurata, i giovani sparivamo, si dileguavano, senza lasciare tracce. L'idea principale del cinema di Caetano e' la sopravvivenza: sopravvivenza all'orrore, raccontata come un film dell'orrore. Cio' che piu' interessa al regista e' soprattutto la fuga dall'inferno, nudi come bestie, scivolando sull'asfalto come scimmie scappate dalla gabbia. Ecco che anche la storia vorrebbe essere un pretesto, una piattaforma per la fuga dai colori non saturi e dall'esposizione in ogni inquadratura di tutte le parti in gioco. L'immagine contrasta la storia, prova a complicarla, a far crescere la tensione nello sguardo di chi guarda, passando per la messa a fuoco alternata. Ma non basta: anche l'ultimo sguardo di Tamburini che sorride ad un bimbo in fasce e alla madre, incontrata quattro mesi prima ancora con il pancione, e' solo un sussulto un grido di dolore e di speranza strozzato dalla voglia di raccontare piu' che mostrare.

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