CANNES 59 – Un cinema 'mostruoso': "L'amico di famiglia" di Paolo Sorrentino (Concorso)

Il cineasta napoletano da l’impressione di avere una sicurezza incredibile nei suoi mezzi, ma in realtà realizza una pellicola che fagocità soltanto corpi e dettagli, che esibisce in modo invadente il proprio stile sia a livello visivo sia narrativo e alla fine la vita mostrata è ridotta ad una serie di squallidi quadretti

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Ci si è sbagliati con Paolo Sorrentino. Con L’uomo in più si era creduto di vedere una ventata d’aria nuova, un tipo di cinema diverso, uno sguardo originale. Il successivo Le conseguenze dell’amore aveva fatto sorgere più di qualche sospetto. L’amico di famiglia, secondo film italiano in concorso di questa 59° edizione del Festival di Cannes, toglie infine  ogni dubbio e lascia l’impressione di un cineasta enormemente e immeritatamente sopravvalutato. Al centro della vicenda c’è Geremia, un settantenne usuraio, ricchio e tirchio, cinico e ironico, che ha un rapporto morboso con qualsiasi persona o cosa: la madre, le donne, i soldi. Ancora un film giocato essenzialmente sui movimenti del protagonista come era già avvenuto nel caso di Titta Di Girolamo (Toni Servillo) in Le conseguenze dell’amore, chiusi in uno spazio geografico definito e delimitati spesso da interni scuri o grigi dove l’enfasi del regista napoletano rischia talvolta di soffocare l’ottimo lavoro della fotografia di Luca Bigazzi, capace di creare con i suoi cromatismi una dimensione isolata e malata. L’amico di famiglia potrebbe guardarsi come un film sulla bruttezza, che magari aspira a spingersi verso quelle zone del ‘mostruoso’ del cinema di Marco Ferreri. Il fatto è che Sorrentino, anche autore della sceneggiatura, sottolinea frequentemente le azioni, i piani sui volti, con movimenti di macchina continui: zoom sui volti dei protagonisti nel momento in cui stanno per parlare, inquadrature storte, ralenti che aspirano alla fissità come nella scena della partita di pallavolo. La vita dei personaggi è ridotta ad una serie di quadretti che forse vorrebbero rappresentare lo squallore della vita umana e invece sono solamente squallidi, esempio di un cinema dove la vita dei personaggi è continuamente spezzettata, quasi alla maniera di Fuori dal mondo, il peggiore film di Piccioni dove ogni sguardo, ogni gesto sono così innaturali e ridondante da far apparire anche questa volontaria manipolazione sull’immagine come un’esperimento venuto malissimo. Sorrentino da l’impressione di una sicurezza incredibile nei suoi mezzi, affonda le inquadrature dentro una colonna sonora assolutamente invadente, trasforma Geremia in una specie di ‘filosofo del male’ del nostro secolo mettendogli in bocca frasi in cui sembra depositata la verità sulla natura umana. È decisamente troppo, si va oltre la soglia della sopportazione. Il guardare del protagonista (interpretato dall’attore napoletano Giacomo Rizzo) sui suoi oggetti del desiderio può essere anche l’esempio del suo essere onnivoro, come nei confronti della ragazza (Laura Chiatti) con cui si sente a suo modo in credito in quanto ha prestato i soldi al padre, ma da anche l’idea di un cinema che, nella sua presunta perfezione formale, nella sua ricerca di associazioni visive – il volto della ragazza accanto a quello della Madonna – nella volontà di entrare nella testa di Geremia, lascia invece in secondo piano il mondo della malavita, lo strazio dei personaggi sommerse dai debiti. Nella sua apparente sottrazione, la stessa che aveva caratterizzato tutta la prima parte di Le conseguenze dell’amore, L’amico di famiglia è invece solo l’esempio di un cinema che non riprende ma fagocita soltanto corpi e dettagli e alla fine arriva a un punto di esplosione (il fallimento del protagonista, lo strazio della madre quando il protagonista decide di andar via di casa) utilizzando le forme più scontate della scena madre scivolando (in)volontariamente in un grottesco totalmente incontrollato e sfasato.

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    Un commento

    • Solo un'altra collezione di pensierini sparsi, Emiliani. Quand'è che inizi a parlare di cinema?