CANNES 60 – "A Londoni Ferfi" (L'Homme de Londres), di Béla Tarr (Concorso)

Dal romanzo di George Simenon, "L'Homme de Londres", segna il ritorno di Bela Tarr. Tra i grandi maestri dell'est, il suo cinema si dimena tra corpi giganti del bianco e nero, chiede di essere considerato come un unico atto, un miracolo mai esaurito in una fiammata. Poeticamente macchinoso, duro come il sudato pane del giorno prima

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Adattamento dell'omonimo romanzo di George Simenon, L'Homme de Londres, segna il ritorno al lungometraggio dell'ungherese Bela Tarr. Nel 2000 ha girato Werckmeister Harmoniak (Le armonie di Werckmeister). Maloin trascorra una vita semplice e senza slancio, ai confini del mare infinito: di rado si accorge del mondo che giro intorno a lui. Sembra aver accettato il lungo ed inevitabile deterioramento della sua vita e la sua immensa solitudine. Quando diventa testimone di un omicidio, la sua vita dovra' fare i conti con la colpa, la morale, il tradimento. Il fatto straordinario andra' ad intrecciarsi con una vita familiare piena di conflitti e di disperazione e con un ispettore di polizia impegnato a risolvere il caso. La storia di Maloin sembra essere quella di molti, di tutti quelli che si interrogano ancora sul senso dell'esistenza. Poeticamente macchinoso, lento sino allo spasimo, Béla Tarr, uno dei grandi maestri del cinema dell'est, sembra muoversi tra corpi giganti del bianco e nero e della teatralita' del dramma. Confusione dell'uomo con la natura, di una visione "chiusa" dal e sul mondo della quotidianita' sconvolta per una "morte". La monotonia del cinema, tra ombre noir, pesantezza dello sguardo, e' il trucco che non rappresenta il normale per rappresentare il nulla, che non rappresenta il saggio sulla societa', ma la poesia dell'uomo. Vecchio e nuovo, maestro e infante, nella stessa inquadratura, nello stesso spazio, quello della gioventu' assente o demente, come un rumore bianco di creature morte e non creatori. Tarr e' di questa terra, lontano dalla realta', imitatore dell'esistenza, idea peregrina del muto o terra e polvere che torneremo ad essere. Questo e' cinema in cui sembra manchi il prima e il dopo, c'e' solo un lungo e un attesissimo attimo. Attimo senza tregua: il cinema chiede di essere considerato un unico atto, un miracolo mai esaurito in una fiammata. Tarr  illude, perche' ci fa vedere sempre e ancora: la sua messa in scena e' un tormento, un'ossessiva ricerca del punto dove piantare la macchina, del punto dove non e' impossibile ricordare e della  forza misteriosa delle cose che vorrebbero farsi ricordare come di quelle che si vogliono far desiderare e amare. Crediamo di scoprire fantasmi e ricordi mentre anche le immagini ci sfuggono: tutto cio' che e' gioco e che e' in gioco, svanisce. Come nel luogo (politico) della coscienza, niente di quello che si mostra e' inventato: ogni cosa e' realmente accaduta e accade senza apparenza. Qualcosa di piu' di un ritratto, di un quadro e la sua cornice: quando lo sguardo si blocca per minuti, il set si espande, squarcia le memorie, lascia aperta sempre una porta, o un porto, da cui uscire ed entrare. Il cinema dei perdenti, deflagrati dal nulla che va riempito dai sogni e poi coperto dalla terra. Anche il segno cinematografico si ripete sempre, come una visione del mondo ormai quella, ma e' una ripetizione da fuoricampo, caparbia e sensibile attenzione alle sfumature, ai dettagli infinitesimali di luce, suoni, movimenti del tempo, modulatori delle immagini. Tarr sembra fare cinema per dimostrare che non viviamo nel migliore dei mondi e del cinema possibili, che restano a volte fuori, dalla finestra o dalla sala: il fuori di Tarr non e' mai del tutto escluso, esiste e si annuncia, arricchisce e smargina il dentro, nel bianco finale oltre il tunnel della    E' crudo, e' duro, come il sudato pane del giorno prima. I corpi ci coprono, li senti addosso e vorresti girarli come leggere pagine di letteratura filmata.

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