CANNES 60 – "My Blueberry Nights", di Wong Kar-wai (Concorso)

Si avverte una frattura tra l'universo visivo dell'autore di Hong Kong e gli spazi del cinema statunitense. Forse si tratta un atto d'amore nei confronti della cantante Norah Jones ma questo sentimento non filtra e, per la prima volta, quel calore potente del suo cinema diventa esteriore e si ha una sensazione di glaciale, pericolosa freddezza.

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Si è spesso – se non sempre – amato quell'eccessivo manierismo nel cinema di Wong Kar-wai. Quel cinema dove il soggetto e la forma diventano un 'corpo unico' , dove i volti si nascondono nell'ombra e si mettono in luce quei cromatismi accesi in cui il colore sembra uscire dai bordi delle figure, degli ambienti, degli ambienti ed espandersi e fondersi nell'inquadratura. Con My Blueberry Nights – primo film del regista di Hong Kong girato in lingua inglese – si ha la sensazione di una frattura consistente tra lo sguardo di Wong Kar-wai e lo spazio filmato: New York di notte, il treno della metropolitana che passa, la pioggia che cade, i riflessi. Al centro della vicenda c'è Elisabeth (prima apparizione sul grande schermo della cantante Norah Jones) che dopo la fine di un rapporto amoroso decide di intraprendere un viaggio attraverso l'America. Si lascia così alle spalle il proprio mondo di ricordi e soprattutto si allontana dal suo nuovo amico, il proprietario di un bar (Jude Law). Si trova così a lavorare in un bar dove entra particolarmente in intimità con un poliziotto (David Strathairn), con la moglie che l'ha lasciato Sue Lynne (Rachel Weisz) e con un'accanita giocatrice di un casinò (Natalie Portman) che ha un conto in sospeso da regolare con il padre.

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My Blueberry Nights potrebbe apparire la variante statunitense di un 'melodramma sulla solitudine', genere che attraversa il cinema di Wong Kar-wai da Happy Together a In the Mood for Love e 2046. Anche attraverso la voce fuori-campo della protagonista si entra dentro le sofferenze individuali, dove il cineasta mantiene intatti i segni del proprio sguardo proprio attraverso un punto di vista decentrato (le immagini di Elizabeth e il proprietario del bar dall'esterno della vetrata del locale) e l'uso di ralenti accennati, interrotti e poi provvisoriamente ripresi. Il viaggio della protagonista – proprio in questo disegno teorico di filmare la distanza – è poi sottolineato dalle didascalie in cui sono messe in evidenza le tappe del suo viaggio (i giorni e la distanza da New York). Alla fine, in questa traiettoria durata quasi un anno, si compie quella metamorfosi esistenziale all'interno di un set immutabile che aveva caratterizzato in maniera straordinaria Moulin rouge di Luhrmann. Norah Jones quindi diventa in qualche modo il corpo in cui si specchiano gli altri protagonisti – in un cast d'eccezione che vede anche Jude Law, Rachel Weisz, David Strathairn e Natalie Portman – e forse è proprio questo contatto diretto a segnare la sua mutazione in questa traiettoria andata/ritorno. Quello di Wong Kar-wai può essere interpretato come un atto d'amore nei confronti di Norah Jones, eppure questo sentimento alla fine non filtra. Anzi, alla fine rischia di risultare controproducente in modo simile (anche se non a quei nefasti livelli) di quelli di von Trier nei confronti di Bjork. My Blueberry Nights, come in parte 2046, lascia ormai vedere i meccanismi perfetti di un formalismo che si può anche ripetersi all'infinito ma che sembra stonare con l'immaginario visivo di molto cinema statunitense come, per esempio, in quella confidenza barista-cliente, del casinò (con la m.d.p. di Wong che si sofferma sul dettaglio delle fiches) e soprattutto del road-movie, con il viaggio sulla Jaguar di Elizabeth e Sue Lynne in cui, nel movimento, nei colori caldi della fotografia di Darius Khondji – qui il direttore della fotografia è come se accentuasse quella visionarietà astratta e onirica di Seven, In Dreams e La nona porta – restano solo delle labili tracce di uno sguardo esterno dove il cineasta appare smarrito ed estraneo. Wong Kar-wai forse vuole guardare gli Stati Uniti come li guarda Wenders però solo con i suoi occhi. E, per la prima volta, quel calore potente del suo cinema diventa esteriore e si ha una sensazione di glaciale, pericolosa freddezza.

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