CANNES 60 – "We Own the Night", di James Gray (Concorso)

Al suo terzo lungometraggio, James Gray entra prepotentemente tra i registi da amare e diffondere. Sguardo fiero tra Martin Scorsese e Paul Schrader: il cinema gli appartiene a discapito della scrittura apparentemente o volutamente approssimativa, a discapito di una spettacolarizzazione manierata

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New York, fine anni Ottanta. Bobby (Joaquin Phoenix) e' il gestore di un locale notturno situato in una zona comandata dalla mafia russa. Con l'esplosione del traffico di droga, i russi vorrebbero dominare la notte e tutti quelli che vi ci abitano. Per continuare la sua crescita economica, Bobby e' costretto a scendere a compromessi con la malavita e cio' lo costringe a tagliare con suo padre (Robert Duvall) e suo fratello (Marc Wahlberg), due esponenti di spicco della polizia della citta'. Quando i contrasti tra forze dell'ordine e mafia russa si inaspriscono, Bobby sara' dovra' prendere una dolorosa decisione… Al suo terzo lungometraggio (dopo Little Odessa, The Yards) James Gray entra prepotentemente tra i registi da amare e diffondere. Sguardo fiero tra Martin Scorsese e Paul Schrader: il cinema gli appartiene a discapito della scrittura apparentemente o volutamente approssimativa, a discapito della spettacolarizzazione manierata. Livido, duro, magmatico, senza fronzoli barocchi, Gray realizza un dramma poliziesco di origine classica, dove sembra che la storia sembra dipanarsi rispettando la cronologia del girato, in cui senti addosso tutto il peso della colpa, della vendetta, del violento attacco agli affetti. Scene memorabili squarciano la citta' senza tempo e spazio cinematografici imposti. Sotto una pioggia battente Gray realizza uno degli inseguimenti in macchina piu' belli mai visti, carico di sacralita' passata, grondante adrenalina pura. Tra le alti canne l'ultimo duello: misterioso, cupo, Gray confonde le prospettive, il fuoco e' alto, il fumo si fa nebbia espressionista, fuma ancora il petto con una pallottola al cuore. E' come un thriller morale in cui, a differenza di Schrader, sono i figli a tradire i padri. Ma in fondo e' sempre il padre a tradire prima: tradiscono i figli che crescono soli e diventano adulti menomati da troppo poco amore o muoiono perche' mancanti a se stessi. Tutto il cinema di Gray ruota intorno al Padre amato, stimato, dominante, che non è mai assente, semmai troppo presente. Come quelli "schraderiani" infatti sono dei superpadri: genitori che si strappano dalla loro carne afflitta i figli e li gettano nel mondo. Padri talmente forti che finiscono per coincidere con il padre. Il fascino postmoderno del cinema di Gray, filtrato da uno sguardo moderno e critico di rigore classico, nasce proprio da questa sovraesposizione della figura paterna (che non sapra' difendere la propria vita).  Il suo cinema rievoca e rimette in gioco il sacrificio del figlio compiuto (che per miracolo sapra' difendere la propria vita), voluto, orchestrato dal padre. Lo snodo problematico intorno al quale si articola questo dramma della volontà del padre (o meglio: del morire per il/del padre) è il tradimento.  "Prima che mio padre morisse, io ero già orfano". Gettati nel mondo, i figli vivono soli: un uomo e il suo tassì (Taxi Driver), un uomo e la sua stanza (American Gigolò, Lo spacciatore), un uomo e la bellezza (Mishima). Nel cuore nutrono un risentimento sordo e impotente. Anche Bobby con suo padre. Vivono sempre nel cono d'ombra del padre. Infatti, pur avendolo abbandonato, non l'hanno dimenticato (come lo stesso Willem Dafoe in Affliction). Continuano a sognare di uccidere il padre, i figli di Schrader e di Gray, ma per loro equivale a suicidarsi lentamente (e lo sanno bene), se prima non trovano la forza di inginocchiarsi dinanzi al potere procreatore.

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