CANNES 61 – ''Serbis (Service)'', di Brillante Mendoza (Concorso)

servisSorpresa al festival con l’inserimento in concorso del regista filippino, difficilmente pensabile nella sezione piu’ importante. Mendoza e’ da amare proprio perche’ nel suo cinema casa e bottega c’e’ sempre qualcosa di pasoliniano: l’invischiamento nella cultura “bassa”, l’emozione di fronte alla bellezza dei corpi, la volontà di sezionare il legame sociale di cui questi corpi sono l’emblema

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servisSorpresa al festival con l’inserimento in concorso del regista filippino, in passato amato e apprezzato anche qui a Cannes (e non solo) ma, difficilmente pensabile nella competizione principale. Di Mendoza, al suo settimo lungometraggio, abbiamo gia’ detto che si tratta di uno dei piu’ interessanti registi della new wave filippina. Riporta alla memoria, nonostante l’uso del digitale e del lavoro sporco, Lino Brocka: non e’ soltanto cinema di denuncia, dicotomico oppositore di vecchio/nuovo, e’ cinema sempre piu’ di ambigua implosione, viscoso riverbero di esseri che ridono e piangono nella stessa inquadratura. In un cinema di Manila, che proietta da sempre film erotici degli anni ’70, vive un’intera famiglia. All’interno della sala e fuori di essa si consumano i drammi quotidiani, le passioni, gli amplessi, i desideri nascosti e perturbanti, la voglia di fuga da una realta’ pressante e caotica. Prima coproduzione per Mendoza che certo non ha potuto comunque avere a disposizione un budget sufficiente per lavorare al meglio. Come soprattutto nei suoi due ultimi lavori (Foster Child, Tirador), Mendoza usa la parola, coperta quasi sempre dai rumori del mondo circostante, e ne pesa il suo valore ideologico, ma anche il suo fallimento storico. Mendoza fa cinema reinventandolo per proprio conto, stretto dalla legge del guadagno immediato e il rischio di un confronto troppo brutale con il potere, che e’ quello soprattutto del denaro. C’è sempre qualcosa di pasoliniano: l’invischiamento nella cultura “bassa”, l’emozione di fronte alla bellezza dei corpi, la volontà di sezionare il legame sociale di cui questi corpi sono l’emblema. La semplicita’ di racconto e la voglia di assalire i corpi sembrano essere la furia di un occhio che vorrebbe vedere le cose ultime e di non riuscire a fermarsi, e insieme la voluttà obbligata di non trovare mai nulla su cui fissarsi, di cercar di mantenere libertà di visione sempre ipotetiche e ulteriori.

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servisCome se uno “spirito dell’immaginario” tentasse di aleggiare oltre gli oggetti, attraverso gli schermi (come la capretta che abusivamente invade la sala), senza i condizionamenti del set. Mendoza sublima proprio la lotta del cinema e della visionarietà contro la morte dentro la morte (la pellicola che brucia e’ il segnale), riscoprendo la sovrimpressione come atto d’amore tra immagini e parole. Perché la lieta fine non è lieta e non è fine… il cinema e la scrittura riconquistano la qualità fragile di essere sempre, esattamente di quel tempo, un po’ fuori tempo, un po’ fantasma, un po’ memoria, omaggio di altre inquadrature di altre avventure impossibili, e altri gesti mille volte visti quasi uguali. Non più affresco cromatico di un decoratore o autore di clip pubblicitari: questa è cinema a sprazzi magico di comprensione e captazione dell’illusione, è profezia che vede lontano, troppo vicino.

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Festival de Cannes

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