CANNES 62 – Cosi' lontano cosi' vicino: la famiglia vista dal festival

Daniel Y Ana

Messico, Francia, Giordania/Palestina: tre giovanissimi registi si confrontano con i rapporti familiari. Il personale è il punto di partenza dell’artista, e allo stesso tempo il piu’ difficile da affrontare. Dall’asetticità che fa sudare freddo, al documentaristico/intimo passando per un’ironia calda e partecipata, dalla selezione ufficiale di Un certain regard e dalla Quinzaine des realisateurs tre sguardi diversissimi, un unico filo

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Daniel Y Ana Messico, Francia, Giordania/Palestina: tre giovanissimi registi si confrontano con i rapporti familiari. Il personale e’ di regola il punto di partenza dell’artista, e allo stesso tempo il piu’ difficile e delicato da affrontare. Dall’asetticita’ che fa sudare freddo, al documentaristico/intimo passando per un’ironia calda e partecipata, dalla selezione ufficiale di Un certain regard e dalla Quinzaine des realisateurs tre pellicole hanno catalizzato l’attenzione del pubblico qui al festival. Tre sguardi diversissimi, a tratti acerbi a tratti consumati, un unico filo: la difficolta’ di comunicare dentro le mura di casa, e ancora di piu’ – nonostante tutto – la forza dell’animo umano e la sua capacita’ di rinascere all’infinito. Il mercato terribilmente sommerso della pornografia on line in Messico e’ lo sfondo di Daniel Y Ana (Quinzaine des realizateurs), primo lungometraggio del messicano Michel Franco (ha studiato regia alla New York Film Academy e diretto tre corti, premiati in diversi festival, e spot con la sua casa di produzione Pop Films) che non ha probabilmente avuto dubbi d’esordio: che in America Latina i rapimenti siano parte del quotidiano e’ cosa nota, che siano destinati al making of di porno a base d’incesto forse meno. E’quanto succede ai protagonisti della vicenda reale raccontata da Franco a colpi di macchina ferma, luci fredde e impietose e realismo inatteso. Daniel e Ana, fratello e sorella, vengono rapiti mentre fanno un giro in macchina, costretti a fare sesso sotto minaccia di morte e ripresi da persone che conoscono il loro legame di parentela. Oltre (quando un oltre e’ possibile) il trauma, restano silenzi atroci e strascichi imprevedibili dentro i rapporti tra loro, i genitori, e Rafael, il fidanzato di Ana che sta per sposarla. Nessuna concessione al personale nella rappresentazione costruita dal regista, ma una affascinante, profonda capacita’ di comprensione delle dinamiche familiari, di quei meccanismi di aiuto e sostegno reciproco che si inceppano anche quando si e' abbastanza forti per uscire dall’incubo. Daniel Y Ana e’ impietoso, lucido, diretto senza essere sgomento, trova nel rispetto della storia e dei personaggi la sintesi tra partecipazione e distanza. Nella direzione opposta, e con risultati molto diversi, i ritratti di famiglia di Cherien Dabis (nata da
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genitori giordano-palestinesi, viene dalla Columbia University ed e’ produttrice e sceneggiatrice per la tv) e Mia Hansen-Love (Fin août, début septembre, Les destinées sentimentales di Olivier Assayas, una collaborazione con i Cahiers du cinema e l’opera prima Tout est pardonné). La prima, con Amreeka (Quinzaine des realizateurs) cala lo spettatore nella vicenda di una madre divorziata che vive a Betlemme con il figlio adolescente e si trova davanti all’opportunita’ di cambiare vita, andando negli Stati Uniti e lasciandosi alle spalle controlli armati, muri divisori in costruzione e un futuro vuoto di studio e lavoro per suo figlio. L’esperienza di migrazione, il cultural crash, il razzismo palese e quello strisciante, l’ottusita’ geografica e culturale d’oltreoceano, lo sconvolgimento della relazione madre-figlio, base dell’intera esperienza, e l’incrollabile e fiduciosa forza della protagonista sono resi dalla Dabis con un evidente impeto personale, che riesce pero’ a sorvolare l’immediatezza del proprio vissuto (non a caso il film e’ dedicato « alla mia famiglia ») per diventare, in diversi punti, riflessione (ottimista) sulla societa’ civile e visione condivisa e condivisibile nella capacita’ dell’autrice di guardare i personaggi in modo sempre nuovo ad ogni inquadratura, ad ogni svolta di sceneggiatura. Altrettanto personale, ma meno immediatamente riuscito e’ Le père de mes enfants (Un certain regard), dove le difficolta’ lavorative di un marito e padre di tre figlie (una ventenne e due piccole) precipitano la situazione familiare verso l’ignoto. Se la comunicazione subisce un arresto senza ritorno in Daniel Y Ana e si fa intermittente in Amreeka, nel film della Hansen-Love le relazioni sembrano scorrere come sempre, serene e in fondo normali. E’ cosi’ che, infatti, avviene di solito l’irreparabile: con un male che si dovrebbe vedere e non si vede, affiorando solo in qualche capello bianco scoperto dal vento e in troppe sigarette, in quel trattenere le emozioni che si fa lentamente abitudine diventando la vita stessa. La regista segue il familiare quotidiano con sguardo quasi documentaristico e insieme, anche qui, intimo, sovraccaricando l’opposizione tra le tante, tantissime parole del film e l’altrove, vuoto di segni, dove avviene cio’ che davvero conta. Questo puo’ portare Le père de mes enfants a restare lontano dallo spettatore, che riesce solo parzialmente a calarsi in uno sguardo cosi’ vicino agli eventi e cosi’ lontano dalla loro genesi. Ma che resta sicuramente – come in Franco e in Dabis – uno sguardo che sa scegliere, senza compromessi, pronto anche a pagare i prezzi della scomodita’ o della consapevolezza di una futura, naturale, evoluzione.
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