CANNES 62: "Fish tank", di Andrea Arnold (Concorso)
Lo schema è senza sorprese, ma la distanza dai cliche’ di questo cinema è siderale. L'interiorità è un mondo sommerso che la regista cattura facendo passare sul volto della protagonista il blu della solitudine, il giallo di una passione invisibile e soffocante, il rosso virato al viola della corruzione
Al suo secondo lungometraggio dopo
cinema e’ siderale. Andrea Arnold gioca tutto sui dettagli, gli sguardi e le parole non dette. Mia e’ come la giumenta-apparizione in un ritaglio di prato abitato dal ragazzo gitano che diventa suo amico, e i suoi momenti migliori sono quelli in cui riesce per un solo attimo a staccarsi da se stessa e dal suo (tenero) cinismo, a volare in una stanza (quella in cui si rifugia per ballare davanti a un pubblico assente) o a occhi chiusi nel sedile posteriore di una macchina (quando Connor porta tutta la famiglia a fare una gita). La sua interiorita’ e’ un mondo sommerso, come il pesce che lei e Connor prendono a mani nude, l'uno di fronte all'altro. La regista la cattura facendo passare sul suo volto i colori freddi e blu della solitudine, il giallo carico di una passione totale e invisibile, disperante e soffocante, il rosso virato al viola della corruzione. Mia ha troppa rabbia e troppa inconsapevolezza per essere una lolita. La sua solitaria dance into the fire diventa progressivamente, impercettibilmente, una danza per un altro da se’, tremenda fusione tra (mancanza di) amore paterno e amore tout court. Il suo sogno, ritmato da California dreamin’ e bagnato da una luce solare ora crudele, ora troppo debole, non puo’ che infrangersi sulle coste dolorosamente frastagliate della sua, malgrado tutto, ingenuita’. E non puo’ che risorgere altrove, dal coraggio figlio di quella stessa incoscienza che fa di Mia un personaggio tridimensionale e difficilmente accantonabile.