Lo schema è senza sorprese, ma la distanza dai cliche’ di questo cinema è siderale. L'interiorità è un mondo sommerso che la regista cattura facendo passare sul volto della protagonista il blu della solitudine, il giallo di una passione invisibile e soffocante, il rosso virato al viola della corruzione
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Al suo secondo lungometraggio dopo Red Road, la regista inglese Andrea Arnold torna sui luoghi del suo cinema, fatto di madri sole (Wasp, Oscar per il miglior cortometraggio nel 2005) e spigolosi rapporti con figlie adolescenti (il corto Dog). In Fish tank lo schema e’ senza sorprese: una madre bella, giovane e senza marito (Kierston Wareing, In questo mondo libero…), due figlie, una bambina e l’altra adolescente, Mia (la brava Katie Jarvis, al suo debutto). Il loro modo di amarsi e’ fatto di violenza fisica e verbale (« Sai che non sono riuscita ad abortirti? Era il mio primo appuntamento »), e la casa nella periferia di una metropoli non-luogo e’ gia’ troppo stretta per Mia. Come una vasca per i pesci. Fino a che non compare Connor, il nuovo fidanzato della madre di Mia (Michael Fassbender, Inglourious basterds), destinato a portare uno sconvolgimento a tutti i livelli della sua vita. Gelosia madre-figlia, nuova scoperta della propria sensualita’, la danza come oasi di alienazione, cieli minacciosi, strade enormi, cortili popolari. Lo schema e’ senza sorprese, ma la distanza dai cliche’ di questo
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cinema e’ siderale. Andrea Arnold gioca tutto sui dettagli, gli sguardi e le parole non dette. Mia e’ come la giumenta-apparizione in un ritaglio di prato abitato dal ragazzo gitano che diventa suo amico, e i suoi momenti migliori sono quelli in cui riesce per un solo attimo a staccarsi da se stessa e dal suo (tenero) cinismo, a volare in una stanza (quella in cui si rifugia per ballare davanti a un pubblico assente) o a occhi chiusi nel sedile posteriore di una macchina (quando Connor porta tutta la famiglia a fare una gita). La sua interiorita’ e’ un mondo sommerso, come il pesce che lei e Connor prendono a mani nude, l'uno di fronte all'altro. La regista la cattura facendo passare sul suo volto i colori freddi e blu della solitudine, il giallo carico di una passione totale e invisibile, disperante e soffocante, il rosso virato al viola della corruzione. Mia ha troppa rabbia e troppa inconsapevolezza per essere una lolita. La sua solitaria dance into the fire diventa progressivamente, impercettibilmente, una danza per un altro da se’, tremenda fusione tra (mancanza di) amore paterno e amore tout court. Il suo sogno, ritmato da California dreamin’ e bagnato da una luce solare ora crudele, ora troppo debole, non puo’ che infrangersi sulle coste dolorosamente frastagliate della sua, malgrado tutto, ingenuita’. E non puo’ che risorgere altrove, dal coraggio figlio di quella stessa incoscienza che fa di Mia un personaggio tridimensionale e difficilmente accantonabile.
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