CANNES 62 – "Il piacere e l'emozione". Incontro con Elia Suleiman

Elia Suleiman in The Time That Remains

Sette anni dopo Intervento divino, Elia Suleiman torna alla regia e al Festival di Cannes, presentando in concorso The Time That Remains, dolce, ironica e dolorosa rievocazione della propria infanzia e giovinezza. Il resoconto della conferenza stampa

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Elia Suleiman in The Time That RemainsSette anni dopo Intervento divino, Elia Suleiman torna alla regia e al Festival di Cannes, presentando in concorso The Time That Remains, dolce, ironica e dolorosa rievocazione della propria infanzia e giovinezza. Un’autobiografia, sul cui sfondo si agitano i convulsi avvenimenti della storia palestinese, dal 1948, anno della creazione dello stato d’Israele, ad oggi. Elia Suleiman ha incontrato i giornalisti, accompagnato dai ‘genitori’, gli attori Saleh Bakri e Yasmine Haj.
 
Partiamo da una domanda banale. Che cosa significa il titolo The Time That Remains? Qual è il senso che questa frase?
Non è molto semplice questa domanda, in realtà. Questo titolo può riferirsi allo stesso film, alla storia molto personale che esso racconta. C’è, poi, un sottotitolo, Arabi-Israeliani, un termine politico, che si riferisce ai Palestinesi che vivono nella loro terra, ma vengono considerarsi come degli assenti. I Palestinesi dal 1948 vivono così, ci si riferisce a loro con questo termine molto politico, che io riutilizzo e uso in maniera più personale, per indicare il mio stato, il mio essere a un tempo dentro e fuori, qualcuno che parte e ritorna continuamente. E’ la stessa caratteristica del narratore che si trova a interpretare un ruolo da protagonista. Quindi il titolo va inteso in senso più personale che politico. 
 
Essere palestinesi che senso può avere per un regista, un attore, un’artista? Una situazione politica così difficile può essere un motivo d’ispirazione?
Non ho mai avuto l’intenzione di mostrarmi come una vittima della situazione politica della Paese. Ora mi trovo a Cannes, ho una stanza d’albergo che affaccia sul mare e parlo di questioni politiche. Essere palestinesi, certo, costituisce una sfida continua, una sfida contro le categorizzazioni rigide, le etichette. Bisogna sempre cercare di sfuggire da questi discorsi precostituiti sulla Palestina e girare un film che abbia una dimensione personale. Non si tratta mai di presentare una verità oggettiva, perché la storia è sempre rimessa in discussione. Il mio obiettivo è creare un’immagine cinematografia, una coreografia, un suono che possa creare piacere ed emozione. Essere sempre sotto pressione politica, può essere salutare, perché permette di essere più sinceri e veri nel proprio lavoro.
 
Nel suo film ci sono molte canzoni, le cui parole sembrano accompagnare e aggiungere senso alle immagini. Il suo intento era quello di servirsi dei testi delle canzoni per ampliare il significato del film?
Bisogna andare cauti e non cadere nella tentazione di uno studio antropologico. La musica al cinema evoca qualcosa di universale. La lingua del cinema è universale. Dunque, perché negare e distruggere questa dimensione universale della musica? Quando si utilizza una canzone, si ripone tutta la propria fede nell’ascoltatore, nello spettatore, si crede che possa comprendere tutto, il significato delle parole aldilà della conoscenza della lingua. Credo che sia un grande errore cercare di tradurre le canzoni del film, perché si cade nella tentazione di cercare un contenuto preciso in qualcosa che ne è privo.  

 

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Il suo personaggio sembra evocare Tati. E’ possibile rintracciare nel suo cinema l’influenza del grande regista francese?

Ai tempi del mio primo film, non avevo mai visto nulla di Tati o di Buster Keaton. Oggi, adoro il cinema di Tati, ma credo che sia legittimo aspettarsi che in un mondo così grande, con tante persone che girano film, sia creano dei legami tra registi che hanno una sensibilità comune. Legami di stile che si creano tra certe persone non necessariamente appartenenti alla stessa cultura. Vedo le somiglianze, posso riconoscerle come spettatore, ma non posso dire che via sia un’influenza. Mi sento più influenzato da Primo Levi che da Tati, benché non si tratti di un regista.

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