CANNES 62 – "Irène", di Alain Cavalier (Un certain regard)

irène

Non è tanto un documentario ma un film che si compone attraversi frammenti della memoria, alcuni rimossi, altri recuperati. Un ritratto rivissuto sull’assenza dove il corpo umano compare a intervalli molto irregolari per poi scomparire, realizzato con la rigidità propria del cinema del regista e con la soggettività di una parte di sè che attraverso questo journal intime, sfugge ed entra dentro la pellicola

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irèneLe tracce della memoria scritta. Tre diari del 1970, 1971, 1972 lasciano prendere forma al ricordo attraverso uno sguardo che si sofferma spesso su luoghi e oggetti di un tempo passato. Immagini e sguardi perduti caratterizzano questo viaggio a ritroso personale di Alain Cavalier, rigoroso cineasta francese che proprio qui a Cannes, nel 1986, vinse il Premio della giuria per Thérèse. Irène parte e si sviluppa proprio attraverso la scrittura di quel diario ed è da qui che prende forma il rapporto tra Irène e il cineasta, una relazione forte e, contemporaneamente, piena di ombre. Irene muore nel gennaio del 1972 in un incidente d’auto e scompare dalla sua vita. Le tracce però restano. Tracce che attirano ma sono anche segno di pericolo. Non è tanto un documentario ma un film che si compone attraversi frammenti della memoria, alcuni rimossi, altri recuperati. Lei era un’attrice, Irène Tunc appunto. Oltre che con Cavalier (il quale recupera uno sguardo che somiglia a quello di Greta Garbo in Margherita Gauthier e che come sua musa l’ha diretta in Una notte per 5 rapine e La chamade), aveva lavorato anche con Luciano Emmer (Camilla, 1954), Jean-Pierre Melville (Leon Morin prete) e François Truffaut (Le due inglesi) oltre ad essere stata Miss France nel 1954. La sua figura sembra continuare a vivere come un fantasma che attraversa ancora il presente. Si avverte la sofferenza, lo smarrimento in Cavalier mentre mostra, anzi recupera parte di se stesso. E all’interno di Irène ci sono anche violente fratture come la caduta del regista dalla scala mobile della metropolitana e la telecamera che inquadra il vuoto. Un ritratto rivissuto, un film sull’assenza dove il corpo umano compare a intervalli molto irregolari per poi scomparire, realizzato con la rigidità propria del cinema di Cavalier e con la soggettività di una parte di sè che attraverso questo journal intime, sfugge ed entra dentro il film.

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