CANNES 63 – "Another Year", di Mike Leigh (Concorso)
Il regista inglese tratteggia un bilancio pre-vecchiaia e dà ancora una volta prova della sua poetica del quotidiano. Si concentra sui suoi personaggi middle class con un’ironia spiccata, tagliente, eppur mai cattiva e gratuita. E’ vero. Il suo cinema si scopre più leggero e conferma la sensazione di affidarsi a un impianto “drammaturgicamente meno costruito”. Ma, in realtà, questa assenza è più apparente che sostanziale
Primavera, estate, autunno, inverno. Nell’arco di un anno, frammenti di gioia, serenità, solitudine, dolore, compleanni, funerali, complicità e incomprensioni. Storie comuni che si sfiorano e s’incrociano, ruotando intorno a una coppia di coniugi, che sembra aver scoperto il segreto della pace. Tom e Gerri (quasi un cartoon), assomigliano a due ‘vecchi’ saggi illuminati dalla benedizione di un equilibrio perfetto e dalla serena accettazione dell’età che avanza inesorabile. “Quando ero studente, non mi piaceva la storia”, confida Tom alla moglie. Ora non può più farne a meno, per entrare in sintonia con la verità del tempo. Intorno alla coppia e al figlio trentenne, Joe, una folla di personaggi ancora fuori dalla grazia.
Mary, collega di Gerri, sull’orlo dell’esaurimento e alla disperata ricerca di un uomo. Ken, amico fraterno di Tom, bevitore incallito, anch’egli irrimediabilmente ammalato di solitudine. Il silenzioso Ronnie, fratello di Tom, costretto ad affrontare la realtà della morte. Mike Leigh, già vincitore a Cannes con Segreti e bugie (1996), sembra voler tratteggiare un bilancio pre-vecchiaia e dà ancora una volta prova della sua poetica del quotidiano. Si concentra sui suoi personaggi middle class, medi e quindi esemplari, e ne scava l’intimo, ne tratteggia quel principio naturale di follia, rendendoli, perciò, eccezionali. Molti interni, piani per lo più stretti, campi e controcampi. Una regia ridotta al minimo essenziale, eppur sufficiente a scolpire i caratteri e a far emergere le emozioni, anche per merito degli interpreti, come al solito efficacissimi (a cominciare da Lesley Manville nei panni di Mary). Il regista britannico dà prova della sua capacità di illuminare con uno sguardo tutt’altro che consolatorio le zone più nascoste dell’animo, il lato segreto dei rapporti. E, come già altre volte, mostra un’ironia spiccata, tagliente, eppur mai cattiva e gratuita. Anzi…E’ un sense of humor che con gli anni (l’ultimo La felicità porta fortuna) sembra farsi sempre più tenero, per assomigliare a una sorta di cura, quasi un controcanto che emerge aldilà del dolore e compensa l’evidente disperazione dei personaggi, come nella scena del dialogo tra Mary e Ronnie. E’ vero. Il cinema di Leigh si scopre più leggero, nonostante la serietà di fondo. E nella scelta di raccontare le stagioni (dell’anno e della vita) solo per giornate esemplari, il film conferma la sensazione di affidarsi a un impianto “drammaturgicamente meno costruito”…quasi a voler essere un cinema di ‘zone morte’, di fuoricampo che non hanno la necessità di essere raccontati.
Ma, in realtà, questa assenza di costruzione è più apparente che sostanziale. E’ semmai indice di un controllo rigoroso delle linee narrative, dovuto alla necessità di inquadrare col minimo sforzo anche gli spazi vuoti. La scrittura manca, ma per eccesso. E uno sguardo trattenuto ci obbliga a una distanza troppo spesso incolmabile.
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