CANNES 63 – "Carancho", di Pablo Trapero (Un certain regard)
Dopo il buon carcerario Leonera, questo film del cineasta argentino appare una parziale delusione anche perché cerca una strada onirico/allucinata che non sembra appartenergli. Funziona meglio la parte più realista mentre dagli incidenti simulati non ci sono quegli choc visivi che il regista forse voleva ottenere

Forse un soggetto del genere, soprattutto nelle sue derive, era più adatto a una cineasta come Lucrecia Martel che ne poteva potenziare l'astrattezza. Trapero è spesso apparso più un regista narrativo che onirico e infatti la parte che funziona meglio nel film è quella realistica (la storia tra i due protagonisti, l'effetto dei rumori della strada e dell'ospedale). La macchina da presa tende a stare addosso ai personaggi, volendoli quasi trasformare in qualcos'altro rispetto quello che sono. Ecco forse perché gli incidenti simulati, il rapporto corpo-macchina forse memore del cronenberghiano Crash non provocano quegli choc visivi che Trapero forse vorrebbe ottenere. Anzi risultano piuttosto piatti, così come la trama noir, con boss anche violenti ma corpi con poco spessore. Senza considerare poi gli stacchi improvvisi (la festa della quindicenne), un improvviso squarcio di luce stonato in un film che dovrebbe essere sporco, che non ha nulla di edenico e che non promette nessun riscatto.