CANNES 63 – "Wall Street: Money Never Sleeps", di Oliver Stone (Fuori concorso)

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E’ chiaro che il film vuole essere per questi anni, convulsi e forse indecifrabili, ciò che il primo Wall Street è stato per gli anni ’80: una sorta di compendio di un immaginario e di un modo di vivere. Ma è proprio nel tentativo di incrociare la contemporaneità che mostra un’inadeguatezza di fondo. Sorge il dubbio che il cinema di Stone, nonostante la sua ossessione per il presente, sia in realtà caparbiamente retrò

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Wall street money never sleepsGordon Gekko (Michael Douglas) esce di prigione, dopo ben otto anni di carcere: “più di un assassino”, come dirà al suo nuovo giovane allievo, in un dialogo che ha il sapore del più classico degli showdown… Ha pagato un conto salato, al punto di rimanere con il portafoglio completamente vuoto. E’ il 2001, l’alba della catastrofe che sposterà l’asse di rotazione della Terra. Qualche anno dopo, all’annunciarsi di una nuova catastrofe, meno visibile, ma forse altrettanto tragica, lo ritroviamo nei panni di un vecchio guru della finanza, che scrive libri, dispensa lezioni ai giovani e lancia i suoi anatemi contro il cancro globale della speculazione. Un ravvedimento in piena regola. Ma il richiamo del ‘sangue’ è insopprimibile e istintivo. Può giacere sepolto a lungo, ma non può morire. E a scoprirlo sulla propria pelle saranno le persone più vicine al vecchio squalo: la figlia Winnie (Carey Mulligan) e il suo ragazzo, Jacob (Shia LaBeouf), giovane broker rampante ma idealista.
Ventitré anni dopo, Stone torna dalle parti di Wall Street, richiamato come sempre dall’urgenza dell’attualità. E’ un ritorno a casa: a quella cinematografica, a uno dei film che hanno contribuito a creare la sua fama, e, in un certo senso, a quella reale (il padre di Stone era broker di borsa). Ma chi si aspettava l’affondo graffiante, resterà deluso. Non ci si può attendere che Stone dica qualcosa di nuovo e di ‘sensato’ sulla crisi mondiale, sul greed senza scrupoli degli speculatori, delle banche, degli affaristi che navigano a vista nelle acque melmose dei mercati e ne decidono a tavolino le sorti. Sarebbe pretendere troppo o forse, ancor più, sarebbe segno di un fraintendimento sostanziale del suo cinema, almeno dell’ultimo periodo. Stone non ha niente da dire, perché ormai il suo è un cinema del sentito dire, un cinema che non fa altro che succhiare dall’attualità e risputare le informazioni con una frenesia interventista e tuttologa … Un riflesso e mai una riflessione.
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wall street money never sleepsPer questo, probabilmente, l’unico ragionamento che vale la pena di fare sui film di Stone riguarda l’atteggiamento, l’approccio ‘spettacolare’. Ed è chiaro che Wall Street: Money Never Sleeps vuole essere per questi anni, convulsi e forse indecifrabili, ciò che il primo Wall Street è stato per gli anni ’80: una sorta di compendio di un immaginario e di un modo di vivere. Il che si riflette nella pretesa esemplarità dei personaggi (tutti, rigorosamente, ottusamente a una dimensione, tranne forse il vecchio Gordon) e nello stile che tenta di correr dietro ai tempi.
In questo senso, l’indizio rivelatore sta proprio nel fantastico incipit, ironico e inquietante. Gekko esce di prigione e gli viene riconsegnato tutto ciò che aveva al momento dell’arresto. Per ultimo un cellulare enorme, irrimediabilmente fuori misura. Segno di un’altra era geologica, di un’altra epoca del mondo e del cinema. Ma è proprio nel tentativo di incrociare la contemporaneità che questo Wall Street mostra un’inadeguatezza di fondo, a differenza di un altro film/show sulla crisi contemporanea, Pelham 1-2-3 di Tony Scott, completamente calato nella nuova era della comunicazione totale e perenne. Sorge il dubbio che il cinema di Oliver Stone, nonostante la sua apparente ossessione per il presente, sia in realtà caparbiamente retrò. E a confermare il sospetto arrivano alcuni segni, davvero oltre tempo massimo: effetti in computer graphic da serie B, sovrimpressioni marcate e pacchiane, improbabili chiusure a iride, la stessa colonna sonora, peraltro magnifica, affidata a due personaggi ‘epocali’ come David Byrne e Brian Eno. Scelte che, tra l’altro, ribadiscono il gusto sempre più smodatamente kitsch dell’ultimo Stone, lanciato, senza più alcun freno, verso una compiaciuta e amabile libertà che se ne infischia del ridicolo (come nell’incredibile e dolorosissima comparsata di Charlie Sheen/Bud Fox), del luogo comune, dello stesso imperativo morale dell’impegno. E alla fine, il mondo là fuori non ha più alcun senso oltre il racconto. Si ritrae per lasciare spazio ai personaggi, ai loro piccoli, grandi drammi. E a degli interpreti magnifici.  
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