CANNES 64 – “Bé Omid é Didar (Au Revoir)”, di Mohammad Rasoulof (Un certain regard)

be omid e didar
Impossibile non intravedere un’amara nota autobiografica nella traiettoria di Noora, braccata dal regime iraniano. Mohammad Rasoulof è infatti uno dei tanti artisti perseguitati dal governo di Teheran, prigioniero del suo paese e condannato come Jafar Panahi a sei anni di carcere e a non poter girare film per venti anni per aver osato contestare apertamente la rielezione di Mahmoud Ahmadinejad
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be omid e didar“Se devo essere una straniera nel mio paese, preferisco essere una straniera in un paese straniero”. Noora è perennemente sotto assedio, affacciata su un baratro, mentre lotta per rendere reale il suo sogno e raggiungere un altrove finalmente libero. Un luogo al di là del suo sguardo dove poter di nuovo prendere possesso della sua vita e dare un senso al futuro. Impossibile non intravedere un’amara nota autobiografica nella traiettoria di questa donna braccata dal regime iraniano, sospesa dalla sua attività di avvocato in quanto impegnata nella difesa degli attivisti, e costretta a vivere in totale solitudine (il marito è stato allontanato perché critico nei confronti del governo) il dramma di portare in grembo un feto affetto da sindrome di down. Mohammad Rasoulof è infatti uno dei tanti artisti perseguitati dal regime di Teheran, prigioniero del suo paese (la sua presenza sulla Croisette è stata vietata) e condannato come Jafar Panahi a sei anni di carcere e a non poter girare film per venti anni per aver osato contestare apertamente la rielezione di Mahmoud Ahmadinejad. Un senso di sconvolgente estraneità, difficile da sostenere per lo sguardo, abita Bé Omid é Didar e se ne impossessa come unica condizione possibile in Iran. Un paese dove il futuro può offrire solo una vita malata, ancora prima della sua nascita, e dove un principio distruttivo regola ogni rapporto fino a prosciugarlo. Imprigionata in una claustrofobica gabbia ormai rotta, come la tartaruga che tiene in casa, Noora vive la continua violazione del suo spazio e delle sue speranze, mentre il suo sguardo, sempre puntato su un fuori campo irrealizzabile, rivela con disperato stupore il vuoto che va fagocitando ogni movimento vitale. La staticità che circonda e bracca Noora, unico corpo pulsante del film che si ferma ad ascoltare il battito del cuore della bambina che ospita nel suo ventre, è l’immagine mortuaria di un mondo svuotato. Come la città sulla quale si affaccia la protagonista: un orizzonte  distrutto dalla sua immobilità e al quale è stata negata anche la voce per gridare il proprio dolore. A questo scenario di morte, che con la sua livida intransigenza divora ogni immagine, Mohammad Rasoulof oppone la resistenza della sua protagonista. Incurante del logoramento fisico, costretta a subire un’asfissiante solitudine mentre tentano di depredarla della dignità e del futuro, Noora continua testardamente ad avanzare – come Rasoulof, che ha realizzato questo film semi-clandestinamente – in una struggente lotta che si rivela il sogno fallito di una rivoluzione ancora impossibile.
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