CANNES 64 – “Bollywood – The greatest love story ever told”, di Rakeysh Omprakash Mehra e Jeffrey Zimbalist (Fuori Concorso)

L’intento celato di seguire in parallelo la storia dell’India attraverso le immagini del suo cinema, con filmati di Gandhi e rivolte di strada che vanno insinuandosi tra gli spezzoni di azione, amore e balletto dei film, come a suggerire una cinematografia di reazione alle giravolte della Storia patria, non si eleva mai dal semplice livello di spunto direzionale, utile forse unicamente a tenere legate insieme le numerose bordate variopinte dell'opera, ottima più che altro come accompagnamento video da proiettare sullo sfondo di feste danzanti a tema Bollywood

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Disattende le aspettative del proprio sottotitolo, il documentario realizzato da Mehra e Zimbalist: a conti fatti, per quale ragione due miliardi di persone al mondo in questo momento vivono la più bella delle storie d’amore con il cinema di Bollywood, come recita il cartello introduttivo del film, non ci viene praticamente spiegato: i realizzatori si limitano a raccontare dell’adorazione mistico-religiosa per gli attori e le dive dell’industria, venerati come semidei sovraumani, nel frammento conclusivo dell’opera, l’unico sostanzialmente in cui fanno capolino risicati brandelli di interviste a fan, attori, produttori e registi del business.
E quello di cui si parla è null’altro di nuovo: l’importanza della componente fondamentale della musica, e la linearità arcaica delle storie che questo cinema racconta. Un po’ poco per giustificare 80 minuti di incessante assalto audiovisivo basato su sezioni autoconclusive realizzate montando spezzoni di balletti e sequenze iperboliche legate ai diversi temi e generi cari a Bollywood: l’amore, il riscatto sociale, l’action, il gangster movie…
Da un lato è innegabile lo spaventoso lavoro di ricerca e assembramento delle fonti portato avanti dai due realizzatori, e anche la discreta funzionalità delle mega-clip che ne vengono fuori, che legano insieme brani e scene da decine di film differenti senza che si percepisca mai lo scarto a livello di ritmo. Dall’altro, ovviamente Mehra e Zimbalist sono ben lontani dal padroneggiare la tecnica del cut up e del patchwork punkmanifesto alla maniera di Julien Temple, a cui saltuariamente alcuni balzi d’azzardo tra le grane e i formati del footage fanno per un attimo pensare.
E così l’intento celato di seguire in parallelo la storia dell’India attraverso le immagini del suo cinema, con filmati di Gandhi e rivolte di strada che vanno insinuandosi tra gli spezzoni dei film, come a suggerire una cinematografia di reazione alle giravolte della Storia patria, non si eleva mai dal semplice livello di spunto direzionale, utile forse unicamente a tenere legate insieme le numerose bordate variopinte del film, ottimo più che altro come accompagnamento video da proiettare sullo sfondo di feste danzanti a tema Bollywood, meno per farsi un’idea del valore, delle caratteristiche e della qualità della più grande macchina cinematografica del mondo.

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