CANNES 64 – “Hanotenet”, di Hagar Ben Asher (Semaine de la Critique)

the slutHagar Ben Asher, nel descrivere la libertà sessuale di una donna, le sue scelte di indipendenza sociale, “crede” che filmare scene di sesso quasi hard ponendo in primo piano corpi nudi maschili sia “sguardo femminile e femminista”, cosi come filmare uomini di campagna al lavoro in pose da rivista sexy. Peccato, perché una certa tensione filmica esiste e si sente

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the slutLa campagna israeliana. Un carrello laterale a raggiungere le zampe posteriori di un cavallo. Lo scatto dell’animale. La sua corsa dai campi verso una strada. Un’auto che lo investe. È una scena forte, dura da sostenere, quella d’apertura di Hanotenet (The Slut), primo lungometraggio della regista e attrice Hagar Ben Asher (nel 2007 aveva realizzato il corto Pathways). In quella scena, inoltre, sta il senso – per un po’ ben evocato, poi solo metodicamente applicato in un sempre più stereotipato inabissamento del testo di fronte all’inabissamento dei personaggi – del film, abitato da scatti fulminei e da altrettante immediate sospensioni dell’azione, dei gesti, dei comportamenti. Un senso d’incombenza (che, purtroppo, si rivelerà con pesantezza narrativa nella parte finale) copre come una cappa quel luogo. Un cielo basso “schiaccia” quella terra, le case, la fattoria, le strade polverose e battute dal vento. Lì vive Tamar con le sue due figlie piccole. Tamar con i suoi amanti. Tamar con Shai, il giovane veterinario tornato per occuparsi della casa di famiglia. Che accudirà il cavallo (non ucciso dal film, ma comunque non trattato bene) e entrerà nella vita della donna e delle bambine. Scatenando gelosie trattenute. E divenendo protagonista di una deriva che la regista, a differenza d’altro, in parte accenna in parte mostra. Quando ormai il film è diventato un esercizio di stile, ben curato ma di scena in scena sprofondato nella banalità delle simbologie e delle analogie che riguardano uomini, animali, terra.
Hagar Ben Asher, nel descrivere la libertà sessuale di una donna, le sue scelte di indipendenza sociale, “crede” che filmare scene di sesso quasi hard ponendo in primo piano corpi nudi maschili sia “sguardo femminile e femminista”, cosi come filmare uomini di campagna al lavoro in pose da rivista sexy. E che la vendetta di Tamar (da lei interpretata) contro Shai convocando i suoi amanti per picchiarlo selvaggiamente e poi accudirlo come un animale bisognevole di cure (ancora questi rimandi schematici) rientri nel discorso “politico” e lo “concluda”. Peccato, perché una certa tensione filmica (diciamo fino all’entrata in scena della musica, della canzone sulla scena di sesso fra Tamar e Shai, in un film invece intensamente segnato dall’assenza di colonna sonora) esiste e si sente. In un’opera d’esordio sostenuta anche dal TorinoFilmLab e appartenente a una cinematografia da anni intrigante.

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