CANNES 64 – “We need to talk about Kevin”, di Lynne Ramsay (Concorso)

tilda swinton we need to know about kevin
E' insostenibile l'artificiosità nell’impalcatura a flashback spezzati e incrociati con cui la Ramsay costruisce un film che si basa tutto su metafore ‘scoperte’ e ritornanti, che non ha mai successo nel farci sentire la tensione continua nel rapporto familiare, quanto unicamente l’oppressiva sensazione claustrofobica in cui gradualmente la vita della donna finisce per rimanere ingabbiata. L'interpretazione della Swinton farà probabilmente capolino nei palmares…

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Una delle idee che Lynne Ramsay utilizza reiteratamente all’interno di questo suo adattamento del romanzo omonimo di Lionel Shriver è lo straniamento causato dall’accostamento tra immagini ad alto tasso emozionale e una colonna sonora di classici country-blues che srotolano i propri yodel con stridule voci nasali. A dire di questa produzione Soderbergh basterebbe allora una delle tante sequenze con Tilda Swinton che si aggira per casa, per la città a piedi o in auto, disperata mentre non riesce a uscire dal ricordo dell’incubo vissuto (interpretazione che con alta probabilità troverà posto tra i palmares di questa edizione), mentre ascoltiamo l’acuto e ritmato lamento folk di, per dire, Buddy Holly. Non è il solo vezzo di insostenibile artificiosità nell’impalcatura a flashback spezzati e incrociati con cui la Ramsay costruisce un film che si basa tutto su metafore ‘scoperte’ e ritornanti come il rosso sangue della marmellata, della vernice, della salsa di pomodoro…
Trasportandoci nella quotidiana lotta tra la madre protagonista e il suo figlio violento, dispettoso, autodistruttivo e sociopatico, che si macchierà poi quasi 16enne di un massacro compiuto negli atri della sua scuola a colpi di frecce assassine, il film non ha mai successo nel farci sentire la tensione continua nel rapporto familiare, inficiato anche da una figura paterna particolarmente smidollata come quella interpretata da un ingolfato John C Reilly: attraverso una cura altissima ai vari elementi della messinscena (fotografia raggelata di Seamus McGarvey, con un paio di pezzi di bravura accentuati dal ralenti, e musiche originali di Jonny Greenwood, ma a impressionare è soprattutto il notevole lavoro sul sonoro), ci viene restituita unicamente l’oppressiva sensazione claustrofobica in cui gradualmente la vita della donna finisce per rimanere ingabbiata, nel passato come nello squallido e solitario presente.
Viene in mente la recente incapacità di John Cameron Mitchell di cogliere il senso di tragedia minima, da tavolo di cucina, che si replica giorno dopo giorno tra le quattro mura della famiglia di Rabbit Hole, mentre il piccolo, perfido Kevin ha un po’ lo sguardo del protagonista Joshua nella sua campagna di sfinimento dei coniugi Sam Rockwell-Vera Farmiga, anche quello un film vittima di una empasse senza sbocchi. L’accanimento nei confronti della protagonista di We need to talk about Kevin, con il figlio che addirittura causa la perdita di un occhio alla sorellina, arriva alle irritanti vette di annullare la possibilità di un nuovo amore per la donna, quando il pretendente la prende a male parole in un orecchio durante una festicciola al lavoro.
Gli amanti di questo cinema della mortificazione morale applaudono e applaudiranno soddisfatti, davanti ad una nuova rappresentazione dell’umana miseria. Noi continuiamo a credere invece, illusi come Owen Wilson o Gus Van Sant, ad un Cinema in cui ogni fotogramma è uno slancio sovraumano più che umano, un tentativo mai domo di annullare la distanza che ci separa dal sovvertimento finale dell’idea di un passato a senso unico.

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