CANNES 65 – “A perdre la raison”, di Joachim Lafosse (Un Certain Regard)
A perdre la raison incede implacabile, come la vita, in una ricostruzione chirurgica di un paesaggio emotivo cariato che imprigiona lentamente la protagonista e la costringe ad una chiusura fisica e mentale sempre più claustrofobica. Joachim Lafosse si ispira ad una tragedia realmente accaduta in Belgio per tornare ad immergersi nei territori vischiosi e malati delle dinamiche famigliari che il suo cinema non ha mai smesso di esplorare
Inizia con l’abbraccio tra il profeta di Jacques Audiard e il suo padrino (non a caso a firmare la sceneggiatura è lo stesso Thomas Bidegain di Un profeta) A perdre la raison di Joachim Lafosse, quasi a dirci che siamo ancora in una prigione, anche se questa volta le guardie carcerarie non portano uniformi e le sbarre sono fatte di una sostanza impossibile da vedere ad occhio nudo. E’ la vita stessa a renderci prigionieri fino ad annientarci. Lafosse stacca sull’immagine di quattro bare bianche che prendono il volo, forse questo è l’unico modo per riuscire ad evadere. Poi A perdre la raison torna al principio, quando tutto è iniziato.
Una ragazza, Murielle, e un ragazzo, Mounir, a far l’amore sulla spiaggia e a scambiarsi per sempre quel che a prima vista sembra una promessa di felicità. Tutto è perfetto, un nume tutelare, il padre adottivo Niels Arestrup che ha liberato Mounir e la sorella dal Marocco, a prendersi cura economicamente e sentimentalmente della novella coppia e di una famiglia che cresce. Prima una figlia, poi un’altra e un’altra ancora, fino al maschietto tanto desiderato. Ma qualcosa inizia a scricchiolare, la famiglia è una gabbia mortale e un paesaggio emotivo infetto che toglie il respiro. La famiglia di Lafosse è la prigione, scelta o imposta non importa, che inesorabilmente ci cuciamo addosso fino a non avere più vie d’uscita. Bisognava fuggire quando eravamo ancora in tempo (lo siamo mai stati?), ora semplicemente è troppo tardi.
Joachim Lafosse si ispira ad una tragedia realmente accaduta in Belgio per tornare ad immergersi nei territori vischiosi e malati delle dinamiche famigliari che il suo cinema non ha mai smesso di esplorare. In A perdre la raison i rapporti sentimentali tra Mounir, Murielle e il padre generoso che rende possibile il loro sogno di famiglia sono già minati alla base, sono una scommessa a perdere (la ragione). Il germe malsano che corrompe i rapporti, che ci imprigiona e poi ci svuota fino ad annullarci, contamina ogni immagine del film. Già da quando Murielle e Mounir ancora credono di poter ingannare la vita e corrono verso il futuro pieni di sogni di felicità c’è qualcosa che non torna, qualcosa che continua a disorientare il quadro negandogli trasparenza e respiro, a schiacciare i corpi comprimendoli in spazi sempre più angusti.
Lafosse incede implacabile, come la vita, in una ricostruzione chirurgica di un paesaggio emotivo cariato che imprigiona lentamente Murielle e la costringe ad una chiusura fisica e mentale sempre più claustrofobica. A perdre la raison smarrisce la strada in qualche snodo narrativo troppo forzato, come l’improvviso schiaffo che squarcia senza alcun motivo il lento incedere lento della gabbia che si stringe attorno al collo della sua protagonista, è vero, ma pur nella sua imperfezione il film di Lafosse non solo riesce a farci sperimentare tutto il peso insostenibile di un’esistenza che va in frantumi, ma s’illumina anche di interessanti intuizioni, come quel vestito tradizionale marocchino che la protagonista di Lafosse si ostina inutilmente ad indossare, quasi fosse un amuleto capace di salvare un corpo che ormai ha perso ogni vitalità. In un ribaltamento provocatorio, non è più la Francia, ma il Marocco il sogno di libertà che Murielle vorrebbe inseguire e l’unica immagine del film che si allarga, che trova un’apertura è quella bellissima camminata di Murielle tra le onde del mare marocchino.
Ma Murielle non può fuggire verso il mare, deve tornare indietro.