CANNES 65 – “AntiViral”, di Brandon Cronenberg (Un certain regard)
Brandon Cronenberg sviluppa il soggetto come un incubo di pareti bianche di laboratorio e dettagli di aghi di siringhe, pus, ferite, sangue a fiotti dalla bocca. Ma il suo film è tutt'altro che malato. Anzi asettico, liofilizzato, si compiace sino all'irritazione del suo apparato puntigliosamente minimal, vittima di un'attenzione maniacale all'essiccazione della forma e alla persecuzione degli incroci tra i corpi ripuliti di qualunque carnalità, freddezza obitoriale di cinema in provetta

Brandon, anche sceneggiatore, è imperdonabile soprattutto perché decide in maniera dichiarata di seguire le orme del padre, almeno nelle intenzioni, sia stilisticamente che narrativamente, con una vicenda di innesti sottopelle e aziende pronte a tutto pur di accaparrarsi il virus letale di una star bellissima amata da milioni di fans, in una realtà distopica dove i seguaci dei personaggi famosi spendono fior di quattrini per iniettarsi in cliniche specializzate i virus delle malattie estratti direttamente dai corpi dei propri beniamini, in modo da sentirli in qualche maniera letteralmente dentro di sé.
Brandon Cronenberg sviluppa il soggetto come un incubo di pareti bianche di laboratorio e dettagli di aghi di siringhe, pus, ferite, sangue a fiotti dalla bocca. Ma il suo film è tutt'altro che malato, la mdp è tenuta anzi in una disinfettata quarantena e non si capisce bene se il regista tenga più all'atmosfera da febbre allucinatoria o, da metà pellicola in poi, all'intreccio di doppi giochi, tranelli e inganni in cui il protagonista finisce invischiato quando diventa il portatore vivente di un virus rarissimo e ancora incurabile che tutti vogliono, e che lo accomuna alla sorte di Hannah Geist, corpo proibito di modella perfetta, oggetto del desiderio del personaggio e dei suoi clienti/pazienti alla clinica Lucas, dove lavora.
I richiami al cinema di David Cronenberg sono lampanti e assumono a volte la forma di esplicite citazioni di sequenze, soprattutto provenienti dalla prima parte della sua filmografia: se si tratta di un omaggio “di famiglia”, resta appunto privato, e noi ne stiamo fuori. Paradossalmente, ci sembra più vicina la tragica, e per certi versi similare a quella di Hannah Geist, vicenda di Gwyneth Paltrow in Contagion di Soderbergh, dove l'autopsia di filmati da telecamere a circuito chiuso in cui Marion Cotillard andava cercando la scintilla del contagio riusciva davvero per pochi attimi (i più riusciti del film di Soderbergh) a far rivivere il fantasma di un corpo un tempo inattaccato.