CANNES 65 – “Gangs of Wasseypur”, di Anurag Kashyap (Quinzaine des réalisateurs)

gangs of wasseypur

L'impressionante consapevolezza con cui l'estetica della New Hollywood viene applicata all'universo bollywoodiano è il pregio e il limite (ma soprattutto il pregio) di questa travolgente saga familiare che si dipana per più di sessant'anni e varie generazioni nel seguire una faida vendicativa tra due famiglie della regione bengalese del Wasseypur

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gangs of wasseypurQualsiasi cosa possa voler dire un'ipotetica etichetta come “New Bollywood”, a Gangs of Wasseypur calza perfettamente. Perché questa lunga (più di cinque ore), eccitante saga familiare in cui seguiamo generazione dopo generazione, dagli anni Quaranta fino ai giorni nostri nella regione bengalese (ma passata poi sotto altri Stati della federazione indiana) del Wasseypur, la casata abbastanza criminale dei Khan (che traffica con successo in carbone) ossessionata dalla vendetta contro l'eterno Ramadhir Singh, abile e criminalissimo politicante che fece uccidere il capostipite, è un'applicazione spudorata dell'estetica della New Hollywood al contesto bollywoodiano.

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Non è solo questione di Gangs of New York di Scorsese e dei Padrini di Coppola (evidente spunto di base dell'ossatura narrativa). È invece ineludibilmente questione di televisione – elemento centrale e occulto senza cui la New Hollywood rimane incomprensibile. Ce lo dice già l'incipit: una clamorosa zoomata all'indietro da uno schermo televisivo (che mostra i titoli di coda di una soap in cui i personaggi invitano lo spettatore letteralmente ad entrare a casa propria guardandolo negli occhi) a un sanguinoso massacro da cui i Khan risultano quasi interamente sterminati. È il 2004. Dopo qualche ora di proiezione, il medesimo istante viene ripreso da un diverso punto di vista, che marginalizza lo schermo televisivo e si dedica per minuti e minuti all'agonia di “Don” Faizal Khan. Come a dire: se la televisione ha fagocitato il cinema rapprendendolo in uno sterminato repertorio di storie e situazioni indifferentemente accumulate in senso orizzontale, benissimo, si starà al gioco, si ripartirà dalla televisione rigiocando questo dato per il meglio (questo, in nuce, l'apporto rivoluzionario della New Hollywood). Si inseguirà il repertorio infinito che la televisione ha fagocitato, si percorrerà l'eterno ripetersi soap delle stesse cose godendo della loro fatale transitorietà (che la soap, invece, occulta dietro una massa di Indifferenziato). Si seguirà insomma l'eterno riproporsi attraverso diverse epoche della stessa vendetta impossibile da compiersi – ovvero di una chiusura narrativa strutturalmente impossibile da ottenere e la cui eccedenza è libera così di impazzare in ogni piega del film sotto forma di godimento, sotto forma di affetto per i personaggi (presentatici con una fascinazione che travalica il giudizio morale per proporli letteralmente come membri della stessa famiglia dello spettatore), sotto forma di adrenalina che pulsa sotto la pelle del presente. Quella stessa adrenalina che i vari Coppola e Scorsese sapevano insufflare in un corpo mitico/narrativo virtualmente già morto, per sola (e smisurata) virtù di stile. Un godimento che, come Faizal Singh e come il padre prima di lui (entrambi a lungo agonizzanti davanti alla macchina da presa), non vuole saperne di morire e infatti si reincarna in mille forme “a margine” di un racconto che non vuole saperne di chiudersi (o di chiudersi in un modo che non sia strutturalmente eccessivo).

 

Ramadhir Singh, il Potere Ufficiale, non va al cinema, e fondamentalmente lo disprezza. Non muore mai (o quasi) perché non vive (o quasi). Il film però sta con i cattivi, con quelli che al cinema ci vanno eccome, masticano classici bollywoodiani su classici bollywoodiani, e muoiono di continuo (a un certo punto i nostri occhi smettono – relativamente – di seguire la trama per farsi preda della consapevolezza insinuante che ciò che si agita sullo schermo vivificato da un approccio registico che fa ogni volta “come se” ci trovassimo davanti a un arco narrativo ordinario, prima o poi morirà), ma muoiono perché vivono, perché si sottomettono alla ripetizione eterna dello stesso canovaccio (ovvero: al cinema) cavandone ogni volta l'illusione che il presente abbia corpo e sangue “a lato” del suo destino a perire.

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    Un commento

    • Gent.mo Marco,
      ho mandato il link della sua recensione al regista Kashyap, il quale ora mi chiede una traduzione in ingese. Qualora lei fosse interessato ad inviargliela, può contattarlo via Twitter all'indirizzo @ankash1009. Preciso che Kashyap è una persona deliziosa, il suo cinema molto interessante, e si merita tutto il successo che sta finalmente conseguendo.
      Complimenti per il bel pezzo, e beato lei che ha potuto gustarsi GOW tutto insieme e su grande schermo!
      Cinema Hindi
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      @CinemaHindi