CANNES 65 – “Killing Them Softly”, di Andrew Dominik (Concorso)


Quello che il neozelandese Dominik sembra proprio non aver capito è che il crime movie americano, o neo-noir come lo si voglia definire, è un genere politico per natura, e che le proprie disilluse convinzioni esistenziali, morali e sociali se le porta sulle spalle per conformazione, senza bisogno che le immagini vengano sottolineate da un'etica della sceneggiatura-apologo. Ci sono cose che al cinema non si possono fare. Una di queste è trattare gente come Ray Liotta e James Gandolfini in questo modo

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Un film francamente frastornante come questo nuovo di Andrew Dominik conferma come le cose buone che impreziosivano il precedente L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford fossero dovute principalmente al timone produttivo di Ridley Scott in quell'operazione.
Stavolta, Dominik si mostra quasi da subito indifendibile, imbastendo un teatrino di losers e criminali di quart'ordine che passano un sacco di tempo a chiacchierare di quisquilie quotidiane o a lasciarsi andare a monologhi/confessioni/profonde verità sulla vita su fotografia stilizzata e montaggio sincopato (ormai questo tipo di personaggi è costretto a non poter fare altrimenti…).

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D'accordo. Ci sono cose che al cinema non si possono fare (eh già, ci sono: c'avreste mai creduto?).
Una di queste è trattare gente come Ray Liotta e James Gandolfini in questo modo. Il primo è ridicolizzato praticamente in ogni sequenza, con risultati che rimandano al cinema clownesco del Nicolas Winding Refn americano: innanzitutto in un pestaggio che ne deforma grottescamente i connotati del viso già imbolsito, e poi soprattutto in una irritante, orribile sequenza al ralenti in lunotto d'automobile che esplode in cocci di vetro e sangue – lunga ed estenuante, come l'inutile dialogo tra i due protagonisti che si sono appena “fatti”, inficiato dalla nebbia e dall'intontimento della droga (petizione tra parentesi: dopo anni di disinteresse da parte dei compilatori di soundtracks, diciamo basta allo spreco di pezzi dei Velvet Underground e di Nico nelle colonne sonore dell'ultimo paio di anni, uno strazio che questi musicisti non meritano).
A Gandolfini tocca invece il ruolo del killer sentimentale, ulteriore zavorra del film (scritto dallo stesso Dominik dal romanzo Cogan's Trade di George Higgins), che nella manciata di scene che divide con Brad Pitt ci racconta tutta la sua tormentata storia d'amore. Gandolfini innerva il personaggio di vera disperazione e desolata solitudine, ma purtroppo ancora una volta parliamo di un ruolo che pare venire da un altro film, e lì ci ritorna presto, mentre allo spettatore tocca continuare a sorbirsi questo.

Quello che il neozelandese Dominik sembra proprio non aver capito è che il crime movie americano, o neo-noir come lo si voglia definire, è un genere politico per natura, e che le proprie disilluse convinzioni esistenziali, morali e sociali se le porta sulle spalle per conformazione, senza bisogno che le immagini vengano sottolineate da un'etica della sceneggiatura-apologo, da cui il genere si tiene, o dovrebbe tenersi, sempre e fortunatamente lontano con fermezza.
E allora, se a vedere maltrattate le icone purtroppo ci stiamo abituando in tutto un cinema a cui piace sentirsi scorretto senza sporcarsi le mani, non possiamo ugualmente in alcuna maniera avallare la scelta di chiudere il film, dopo averlo accompagnato con le parole di umanesimo e speranza dei comizi del Presidente Obama per tutta la durata, a contrasto ovviamente con la cinica violenza e la feroce barbarie della vicenda, con una assurda sparata di Brad Pitt (tra i celebri volti progressisti della sua generazione pasionaria d'attori a Hollywood) su come “gli americani non sono un popolo, qui in America alla fine dei conti devi vedertela sempre da solo” e via dicendo ("L'America non è un Paese, è un business!"). Andrew Dominik si autodisinnesca, ma stavolta la sua carica dinamitarda era poco più d'un fuoco d'artificio già in partenza.

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