CANNES 65 – Orizzontale e verticale

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Ci si sente, quest’anno, forse più che in altre edizioni, come in un cruciverba, di opere orizzontali e verticali, orfani del trasversale. Tra gli incroci, solo schegge impazzite di fotogrammi unici, che creano un istante eterno: Amalric in Cronenberg, la pietra scagliata alla finestra di Kiarostami, una battuta fuori campo (involontaria) in Garrone, il 3D inceppato di Argento, l'elegia della lentezza di Tsai Ming Liang e soprattutto i due fermi immagine del capolavoro di Bertolucci e di Wakamatsu, entrambi fuori dal concorso

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Non è lo sbarco su Marte, a cui assistono i g-ottini del pianeta. È la finale Champions di calcio e quello con le braccia al cielo è David Cameron, felice per la vittoria di rigore del suo Chelsea, sul Bayern di Monaco di un’attonita Angela Merkel. Come un presagio di sventura, il rigore è fatale al cancelliere tedesco e chissà se il primo ministro inglese mostrerebbe trasversalità (almeno politica), gioendo all'ipotetica vittoria di Ken Loach, qui a Cannes, con il suo The Angels’ Share, sorprendente commedia politica su chi di progetti per il futuro non ne fa più o deve comunque “rubarli”. Nell’attesa dei verdetti finali, e del nostro consueto articolo riepilogativo sui premi, ci si sente, quest’anno, forse più che in altre edizioni, come in un cruciverba, di orizzontali e verticali, orfani del trasversale. La camicia fantastica di Elia Suleiman, nel suo corto presentato all’interno di un lavoro collettivo, 7 Days in Havana, è la prova di costume evidente. Una camicia bianca, con striscia rossa orizzontale e una nera verticale, chiedendo udienza al Comandante Fidel, con il funzionario di Stato a fargli lo spelling del nome, cercando una via d’uscita orizzontale o verticale dai lunghi e stranianti corridoi dell’hotel in cui soggiorna e affacciandosi sul’oceano contemplativo, regalando una perla cinematografica, tra le poche fughe trasversali di questo festival, capace di riflettere (sul)la faccia triste dell’America, sottotono con i suoi alfieri, ad eccezione di due perle rare: The We and I di Michel Gondry, alla Quinzaine, e l’opera prima Beasts of the Southern Wild di Benh Zeitlin, nella sezione Un Certain Regard. Vecchio e nuovo, maestro e infante, nella stessa inquadratura, nello stesso spazio, quello della gioventù di corsa, del brusio della gioventù come rumore di fondo perenne, come un rumore bianco di creature e non creatori .

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Il resto, tra concorso e sezioni collaterali, un rompicapo di orizzontali e verticali, con rare traiettorie trasversali, capaci di unire il cielo e la terra, l’astratto e il distratto, l’estremo e la poesia, il quadro e il movimento. Il cinema come metafisica istantanea. 1 verticale: registi per cui il componimento visivo deve dare una visione dell’universo e il segreto di un’anima, un essere e degli oggetti, tutto insieme. Se segue semplicemente il tempo della vita, è meno della vita; non può essere più della vita. Essa è allora il principio d’una simultaneità essenziale in cui l’essere più disperso, il più disunito, conquista la sua unità: quante lettere? Ci va: “R” come rivoluzione, “A” come “adelante”, “C” come Castro: Reygadas, Apichatpong, Carax, che in fondo, però, non accettano le conseguenze dell’istante poetico, il pensiero discorsivo, gli amori reali, la vita sociale, la vita corrente, sdrucciolevole, lineare, continua. Ma è ancora tempo questo pluralismo di avvenimenti contraddittorii racchiusi in un solo istante? È ancora tempo tutta questa prospettiva verticale che sovraccarica l’istante filmico? 1 orizzontale: registi per cui nel loro cinema si possono trovare gli elementi di un tempo fermato, d’un tempo che non segue la misura, che fugge orizzontalmente con l’acqua del fiume, con il vento che passa. Nel cinema orizzontale emerge il divenire degli altri, il divenire della vita, il divenire del mondo. L’orizzontale sono quadri sociali della durata. Il tempo non scorre più: sgorga. Quante lettere? Ci va Kiarostami, Mungiu, Hong Sangsoo. 2 verticale:  al cinema verticale ascendente, risponde quello discende fino all’ennesimo colpo, fino all’ultima ferita. Allora si ritorna al tempo piatto. È sul cinema verticale in discesa che si situano le peggiori pene, le pene senza causalità temporale, le pene acute che attraversano un cuore per niente, senza mai illanguidire. Quante lettere? Una sola, “H” come “Hola”, Haneke. Il regista austriaco pensa al cinema come a una manifestazione verticale di un desiderio (mortifero) orizzontale.

 

2 orizzontale: cinema che si nutre del proprio mondo fantastico, teneramente livido. Ci va Anderson, Cronenberg, Resnais, Ruiz: geometrici, dall’alto della loro immensa genialità. Forse però questa stessa ricerca della linea, a volte reiterata, li rende ai nostri occhi teneramente scontati, tenacemente (im)mortali. Sono il trucco che non rappresentano il normale per rappresentare il nulla, che non rappresentano il saggio sulla società, ma la poesia dell'uomo. Dal cruciverba resta escluso Audiard, perché del concorso è l’unico capace di sprigionare quella moralità istantanea trasversale.  Egli rivela insieme, nello stesso istante, la solidarietà della forma e della persona, prova che la forma è una persona e che la persona è una forma nuova, anche senza più gambe. Bisogna allora perdersi negli incorci della Croisette; ci ritrovi schegge impazzite di fotogrammi unici, che creano l'istante eterno: Amalric in Cronenberg, la pietra scagliata alla finestra di Kiarostami, le battute fuori campo (involontarie) in Garrone (“Volgare, sei sato nominato…”), il 3D inceppato di Argento , l'elegia della lentezza di Tsai Ming-Liag (corto che ha chiuso la Semaine) e soprattutto i due fermi immagine del capolavoro di Bertolucci e di Wakamatsu: al volto del giovane protagonista di Io e te, meravigliosa chiosa espressionista, risponde l’ultima inquadratura negli ultimi giorni di Mishima, su mani aperte, pronte ad accogliere l’eredità del rigore mai fallito.    

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