CANNES 66 – “Blind Detective”, di Johnnie To (Fuori concorso)

blind detective

Johnnie To, anche quando manda tutto a briglia sciolta, non può fare a meno di aprirsi a punte di dolore improvviso, di mélo incandescente, ribadendo, una volta di più, come sia questa la corda più profonda che rende viva e vibrante la sua visione morale. Ma soprattutto, non può fare a meno di ragionare sulle prospettive, sui falsi percorsi dello sguardo, svelandone, quasi con un sussurro, i raccordi sbagliati e i vicoli ciechi

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blind detectiveC’è un momento in cui Blind Detective, malgrado l’aria di divertimento leggero e sgangherato che lo riporta alle folli derive di Running on Karma o alla comicità demenziale di Fat Choi Spirit, mostra i segni di tutto ciò che è e che sarà il cinema di Johnnie To. Andy Lau, il blind detective Johnston, decide di dichiararsi alla donna amata da tempo in segreto, una splendida ballerina. Una sequenza di tango, girata come fosse un’altra scena d’azione, una traiettoria vorticosa di personaggi e colpi che si toccano e si scontrano lungo la carta millimetrata dell’inquadratura, una dichiarazione e un rifiuto detti col corpo e, poi, solo dopo, come accessorio, dalle parole. Ed ecco che, alla fine della sessione, Johnston lascia scivolare la sua mano su quella della dama e si rende conto dell’anello. È sposata, il sogno si arresta sulla concretezza metallica delle cose. Ma il vero colpo arriva un istante dopo, quando entra nella sala da ballo l’amico collega, il commissario che si ostina a affidargli i cold case, nonostante gli occhi non abbiano più luce. Per un incredibile gioco di specchi, quell’ingresso sembra appartenere a un’altra dimensione dello spazio e del tempo, che interviene e si sovrappone a questa, alla realtà, folle, del film. È come se vedessimo un brevissimo, assurdo splitscreen, con un’altra inquadratura che si materializza, per un puro artificio della macchina, di fianco a quest’incontenibile Andy Lau, per la prima volta prostrato. Ma è solo un’illusione, negata dall’inquadratura successiva che ribalta la visuale per permettere ai protagonisti di riappropriarsi dello spazio e condividerlo. Ma la frattura si è ormai prodotta, incrinando per sempre la liscia e perfetta superficie spettacolare. Come se fosse intervenuto uno stop, un punto d’arresto che ha azzerato in un attimo quel vortice di situazioni esagerate, esagitate, che ci aveva investito sin dal primo minuto. E proprio su questo punto d’arresto, si frantumano non solo le speranze dell’innamorato cieco (perché l’amore, si sa, acceca), ma tutte le illusioni di un cinema fatto per puro divertimento.

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Johnnie To, anche quando manda tutto a briglia sciolta, non può fare a meno di aprirsi a punte di dolore improvviso, di mélo incandescente, ribadendo, una volta di più, come sia questa la corda più profonda che rende viva e vibrante la sua visione morale. Ma soprattutto, non può fare a meno di ragionare sulle prospettive, sui falsi percorsi dello sguardo, svelandone, quasi con un sussurro, i raccordi sbagliati e i vicoli ciechi. Più prova a intrattenerci con la velocità di un’invenzione senza sosta, immergendoci nell’assurdità della creazione, tanto più si lascia sfuggire la verità di una realtà ancor più assurda, d’impasse, di ripetizioni vane, di incontri mancati, di ottuse cecità. Una realtà davvero incredibile che è il residuo di tutti i cedimenti del cinema, il vero anello che non tiene, il cadavere fatto a brandelli, il braccio sanguinante di Sammi Cheng. E a ogni ferita, a ogni squarcio, il mondo si svela.

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