CANNES 66 – “Grand central”, di Rebecca Zlotowski (Un certain regard)

grand central

Aldilà dei difetti, il film riesce a farci sentire sempre in equilibrio precario, come sospesi su un toro meccanico. Ci alletta con i miraggi di un fuori magico, per poi costringerci a stare dentro, a osservare attoniti il sangue che esce a fiotti dal cuore, dalla bocca. Il corpo è il sentimento. Come fosse un film di Audiard

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grand centralIl giovane Gary Manda vive di piccoli lavori e mille espedienti. Sostiene un colloquio per entrare in una centrale nucleare, ma la mancanza di formazione specifica gli consente di aspirare solo alle mansioni peggiori, quelle più esposte alle radiazioni. Il rischio per la salute c’è, eppure il lavoro è ben pagato e basta stare attenti. Ma Gary non è tipo da usare cautela. Quando si trasferisce nei pressi della centrale, nel piccolo villaggio di prefabbricati destinati agli operai, non può fare a meno di notare la ragazza di un compagno, la provocante Karole. Tra i due nasce una relazione sessuale, che, a poco a poco, si trasforma in vera e propria passione. Passione proibita che rischia di mandare definitivamente all’aria i già precari equilibri di una comunità ossessionata dal terrore.

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Già, il terrore. “Avevo paura”, confessa Karole a Gary, nella desolazione di un mondo già devastato, nonostante la catastrofe non sia ancora avvenuta. Ed è proprio questa paura il colore dominante di Grand central, l’istinto, il sentimento che compatta, fino a renderli una sola cosa, i due toni del film, quello acceso della storia d’amore e quello freddo, asettico della centrale.

 

La Zlotowksi lavora su un doppio registro, tra la durezza realistica di una condizione e la vibrazione incandescente di un mélo appena trattenuto, che sembra sempre sul punto di sfociare in tragedia. La minaccia incombe ovunque. Minaccia di una contaminazione fatale, di un disastro di là da venire, eppur certo, di una rivelazione non più rinviabile, di un distacco inevitabile. Ecco, Grand central è un film sull’attimo prima, poggia la propria emotività su un piano sospeso e inclinato, che scivola, inesorabile, fino a quell’incontro finale interrotto dalla sirena d’emergenza, che ci avverte che il tempo è finito. La Zlotowski ci invita a trattenere il respiro, anche nelle scene d’amore, e ci obbliga a sostare sotto una cappa plumbea, cupa, anche nell’illusione luminosa di un istante di bellezza. Non sempre coglie a segno, soprattutto quando si avverte l’artificio dell’intenzione, la mancanza di un pensiero che colleghi davvero la sorte individuale a quella collettiva, il sentimento e il politico. E c’è forse un eccesso meccanico nel collegare i destini dei personaggi ai volti e alle storie degli interpreti. Attori peraltro in splendida forma: Tahar Rahim, che ormai è il sans papier per eccellenza del cinema francese, una scheggia sempre fuori posto, Olivier Gourmet, che impone ovunque il suo carisma e, soprattutto, un imponente, duro e fragile Denis Menochet. Ma, aldilà dei difetti, Grand central riesce a farci sentire sempre in equilibrio precario, come sospesi su un toro meccanico. Ci alletta con i miraggi di un fuori magico, per poi costringerci a stare dentro, a osservare attoniti il sangue che esce a fiotti dal cuore, dalla bocca. Il corpo è il sentimento. Come fosse un film di Audiard.

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