CANNES 66 – “Grigris”, di Mahamat-Saleh Haroun (Concorso)

Grigris

Il cineasta ciadiano mantiene intatta la sua poetica e, al tempo stesso, disloca il suo cinema in un contesto popolare narrando la storia di due personaggi ai margini della società. Con un respiro filmico appassionato e silenzioso e un finale, capolavoro mélo dove i volti delle donne sono filmati con potenza neorealista, immagini da accostare al cinema bruciante di passione di Idrissa Ouedraogo

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GrigrisAccanto ai muri, nelle situazioni più diverse, sostano i personaggi di Grigris di Mahamat-Saleh Haroun. Sono, i muri, un segno distintivo dell’opera del cineasta ciadiano, fin dai suoicortometraggi. Uno spazio che bracca i personaggi, i loro corpi, in momenti d’intimità o di tensione, di pausa da una scena drammatica o come fondale vivo che partecipa e condivide le emozioni.

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Con Grigris Haroun mantiene intatta la sua poetica e, al tempo stesso, disloca il suo cinema in un contesto popolare narrando la storia di due personaggi ai margini della società, evitando però sempre le incombenti trappole della semplificazione essendo lui, Souleymane, soprannominato Grigris, un giovane storpio e lei, Mimi, una giovane prostituta.

Grigris è un ballerino talentuoso che si esibiscene nei locali e la scena d’apertura (la memoria va a La febbre del sabato sera) è tutta per lui, danzante al centro della folla che lo acclama. Mimi apparirà poco dopo, nel negozio di fotografo del padre di Souleymane per farsi scattare immagini e sognando di diventare modella.

Il presente e il futuro che il film riserva loro saranno diversi. Coppia infine in fuga dalla città e da differenti prigionie, verso il villaggio d’origine dellaragazza, in moto e a piedi, accompagnati, Grigris e Mimi, dallo sguardo dolce, dai carrelli sensibili di Haroun. Che inserisce, nel livello narrativo principale, quello della storia d’amore che lentamente si forma e delle storie parallele (della famiglia di Grigris, della gang per la quale lui si trova costretto a lavorare al fine di guadagnare soldi per curare il patrigno, ma un vero padre, malato), scene che aprono il testo a un respiro fílmico ancor più appassionato e silenzioso. Due, in particolare, sono memorabili. La traversata del fiume, fra le canne, su una piccola imbarcazione, in parte in soggettiva, compiuta da Grigris e da due membri della banda che traffica benzina; e la successiva, notturna, traversata a nuoto trasportando i barili fino a un’altra riva e poi fra canali stretti e muri contro i quali si ferma, affaticato e minacciato, il ragazzo. E la scena finale, capolavoro mélo con le donne del villaggio che accorrono in gruppo per salvare Grigris dal gangster che lo ha scovato e vorrebbe ucciderlo.

Haroun filma i volti delle donne fra l’erba alta e secca con potenza neorealista contaminata con i generi, e rimanendo nel cinema africano non si può non accostare quelle inquadrature al cinema bruciante di passione di Idrissa Ouedraogo (da troppo tempo assente dagli schermi…). Quelle donne uccideranno, fuori campo, il gangster e bruceranno l’auto con la quale era arrivato al villaggio. Poi, torneranno alle loro abitazioni, Mimi e Grigris con loro, scomparendo lentamente fra l’erba. Senza musica, solo con il suono del vento e degli arbusti.

 

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