CANNES 66 – “Heli”, di Amat Escalante (Concorso)

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Escalante osserva le cose con la stessa impassibilità dei suoi personaggi, che guardano all’assurdo di una realtà incancrenita con la stessa passività con cui si guarda la TV o si gioca a un videogame. Il suo cinema mostra tutto, eppure si tiene a debita distanza proprio nei momenti in cui le emozioni sembrano arrivare al culmine, in quegli attimi di condivisione ed emozione, che segnerebbero la differenza rispetto al flusso monocorde della vita

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heliIl cadavere di un ragazzo, mezzo nudo, dondola da un cavalcavia, appeso per il collo, nell’indifferenza generale del mondo. È il punto di arrivo di un piano sequenza abortito, un lungo viaggio della morte interrotto dalla nuova prospettiva sul corpo penzolante. Questo scarto sembra rendere perfettamente l’essenza del cinema di Amat Escalante, che si muove con ritmo regolare, lavora sulla continuità e la durata, per arrivare, quasi senza scosse, a momenti di intensità e violenza estremi. Momenti che, però, più che una cesura brutale, sono l’evoluzione naturale di un percorso, un semplicissimo incidente, perfettamente inserito nel tessuto stesso delle cose.

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Dopo esser stato battezzato in Un certain regard con Sangre e Los Bastardos, il giovane Escalante, messicano di origine catalana, torna a Cannes con il suo terzo lungometraggio, Heli, e apre il concorso di questa 66ª edizione. E non si tratta di una partenza esplosiva, di un pugno dello stomaco, ma di un’iniezione endovenosa, di un disagio che s’insinua sotto pelle e che produce un effetto francamente disarmante. Accettiamo ogni eccesso, persino la scena incredibile della tortura di Berto, con il pene in fiamme, ma è come se rifiutassimo tutto il resto, cioè la normalità di un’acquiescenza mortale, l’intima brutalità di una violenza immobile.

Escalante racconta ciò che conosce, la sua città, Guanajuato, a cinque ore di viaggio da Mexico City, un brullo far west sviluppatosi in maniera aapprossimativa intorno a una fabbrica d’automobili. Ed è proprio in fabbrica che lavora il giovane Heli, che prova a mandar avanti onestamente la famiglia. Ma tutto va a rotoli quando il ragazzo della sorella appena dodicenne, lo scriteriato Berto, ruba due pacchi di cocaina ai narcotrafficanti. La violenza dei criminali sarà inaudita. Ma Heli si troverà di fronte anche alla corruzione profonda di un intero sistema. Come reagire? Cosa si può fare quando il reale sembra esser fatto degli incubi peggiori? Un gesto estremo di vendetta, un attimo d’amore disperato, culmine di una lunga attesa. Ma non cambia nulla.

 

Escalante gira con la benedizione di Carlos Reygadas, mentore produttore, ma non ne condivide gli eccessi estetici. Osserva le cose con la stessa impassibilità dei suoi personaggi, che guardano all’assurdo di una realtà incancrenita, tenuta sotto scacco, con la stessa passività con cui si guarda la TV o si gioca a un videogame. Il suo cinema mostra tutto, non arretra di fronte a nulla, eppure si tiene a debita distanza proprio nei momenti in cui le emozioni sembrano arrivare al culmine, in quegli attimi di condivisione ed emozione, che segnerebbero la differenza rispetto al flusso monocorde della vita. Il ritorno a casa di Estrela e l’abbraccio con la cognata è ripreso in campo lungo, così come il momento supremo di liberazione di Heli. L’amore e la rabbia restano lontani. Ed è come se assistessimo al mostruoso paradosso del reale, in cui l’invisibile, il non mostrabile non riguarda più l’orrore, ma l’umanità. E nella deriva delle cose, il silenzio di Estrela sembra essere l’unica scelta morale possibile.

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