CANNES 66 – Incontro con Mahamat-Saleh Haroun per “Grigris”

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Tre anni dopo Un homme qui crie, torna in concorso a Cannes Mahamat-Saleh Haroun, una delle voci più originali e autorevoli del cinema africano contemporaneo, regista del fortunato Daratt, unico dei suoi cinque film a essere stato distribuito in Italia. Con il nuovo Grigris, Haroun continua a raccontare le realtà difficili del Ciad e di N’Djamena, lavorando però sulle coordinate del cinema di genere

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mahamat-saleh harounTre anni dopo Un homme qui crie, torna in concorso a Cannes Mahamat-Saleh Haroun, una delle voci più originali e autorevoli del cinema africano contemporaneo, regista del fortunato Daratt, unico dei suoi cinque film a essere stato distribuito in Italia. Con il nuovo Grigris, Haroun continua a raccontare le realtà difficili del Ciad e di N’Djamena, lavorando però sulle coordinate del cinema di genere. La storia di un provetto ballerino con una grave menomazione alla gamba, che si ritrova invischiato nel traffico illegale di benzina. Il regista si è presentato in conferenza stampa in compagnia dei protagonisti, Souleymane Démé “Grigris” e la splendida Anaïs Monory.

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Come è avvenuta la scelta del protagonista, Souleymane Démé? È dall’incontro con lui che è nata l’idea di questa storia? Avevo una sceneggiatura dall’inizio, volevo raccontare la realtà del traffico di benzina, che ha coinvolto molti ragazzi che conosco. La storia era una sorta di noir  e in effetti volevo fare un film di genere. Poi un giorno, mi sono trovato a uno spettacolo di danza, ho visto Souleymane Démé ed è stato una specie di apparizione. “Ecco il mio personaggio – mi sono detto – la persona che può apportare una vera originalità alla storia”. Ed è stata la chiave che ha aperto le porte alla versione successiva della sceneggiatura.

 

Come è avvenuto il lavoro sulle coreografie?

Si tratta sempre di coreografia immaginate e perfezionate da Souleymane, ci ha lavorato a lungo. Gli ho chiesto di esprimere le sue emozioni attraverso la danza ed è esattamente quello che ha fatto. Anche perché si tratta di un persona che non parla molto, nel film come nella vita reale. Preferisce esprimersi attraverso il corpo. Posso dire che è stato lui a farmi scoprire il personaggio. E il fatto che abbia perso l’uso della gamba mi ha permesso di parlare di questa gente emarginata, che vive la notte, che vive nell’illegalità, che è costretta a battersi per rendere migliore la propria esistenza. Devo dire che abbiamo vissuto una brutta avventura durante il viaggio per Cannes. Avevo ottenuto un visto per Souleymane e tutti i suoi documenti erano in regola. Ma a Bruxelles, dove abbiamo fatto scalo, è stato trattenuto per cinque ore dalla polizia, semplicemente perché aveva un aspetto bizzarro. È dovuta intervenire l’organizzazione del Festival. Trovo tutto questo scandaloso.

 

E come è avvenuta la scelta della protagonista?

All’inizio volevo un’attrice tchadienne. Poi al casting si è presentata Anaïs ed è stata la sola a mostrare un’originalità di recitazione, tale da convincermi a modificare la storia per lei. Così ho trasformato il suo personaggio in una meticcia di padre francese. Ci sono molti casi simili in Ciad, dove c’era una base militare francese.

 

Qual è stata la maggior difficoltà del film?

Volevo dare un’idea di questa città di notte. N’Djamena è poco servita dall’illuminazione notturna. E io volevo mostrare queste figure fantomatiche che si muovono nell’oscurità. È stato un lavoro enorme, spossante. E perciò ringrazio tutti i membri della troupe, visto che le condizioni per girare in Ciad sono sempre molto precarie.

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