CANNES 66: La 'bella gioventù' francese: A Kechiche la Palma d'oro per "La vie d'Adèle"

La vie d'Adèle

Si aggiudica il massimo riconoscimento il film che ha diviso "Sentieri Selvaggi", il terzo francese in 6 anni (considerando anche la coproduzione di Amour dello scorso anno). Stavolta però è inutile prendersela con la giuria per un Palmarès che non ci fa urlare di gioia ma che comunque in parte ci soddisfa. In questa splendida edizione 2013 c'erano troppi grandi film per pochi premi. A cominciare dai sogni senza fine/dipinto liquido/melodramma d'opera di The Immigrant di James Gray

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La vie d'Adèle

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"Dedico questa Palma d'Oro alla bella gioventù francese con cui ho avuto la fortuna di lavorare durante le riprese del film. Ma anche a quella della rivoluzione tunisina". E' visibilmente commosso Abdellatif Kechiche quando sale sul palco per ritirare la Palma d'Oro del 66° Festival di Cannes per La vie d'Adèle. E lo sono ancora di più le due protagoniste, Adèle Exarchopoulos e Léa Seydoux. La prima, durante il ringraziamento, non riesce a trattenere le lacrime e ha la voce rotta dal pianto.

Il massimo riconoscimento del Festival di Cannes, è così tornato in Francia per la terza volta negli ultimi sei anni, da La classe di Laurent Cantet del 2008 allo stesso Amour di Michael Haneke dello scorso anno, essendo quel film una coproduzione francese, tedesca e austriaca. E le previsioni degli ultimi giorni sono state rispettate. Prima della proiezione del film di Kechiche, il favorito era Le passé di Asghar Farhadi che comunque si è aggiudicato il premio per la miglior interpretazione femminile a Bérénice Bejo, uno dei due riconoscimenti The Immigrantdissonanti attribuiti dalla giuria presieduta da Steven Spielberg. C'erano almeno tre attrici che lo avrebbero meritato più di lei. Marion Cotillard per The Immigrant di James Gray, la stessa Adèle Exarchopoulos per La vie d'Adèle e Marine Vacth per Jeune & jolie di François Ozon. L'altro invece è ben più evidente e riguarda il cinema pallido, anche perversamente affascinante nella sua scarnificazione cinefila dei Fratelli Coen con Inside Llewyn Davis. Proprio al posto suo avremmo visto molto meglio quello che secondo noi all'unanimità è il migliore di tutta la competizione, i sogni senza fine/dipinto liquido/melodramma d'opera The Immigrant di James Gray. O almeno il sublime Steven Soderbergh di Behind the Candelabra, e il film (che si dice l'ultimo del regista, ma da due anni è sempre l'ultimo film) avrebbe chiuso il cerchio perfetto inaugurato dal regista 24 anni fa con Sesso, bugie e videotape, Palma d'Oro nel 1989.

NebraskaPartiamo dal vincitore. Il film di Kechiche ci ha diviso. Personalmente, mi appare come la sua opera più travolgente. Non era l'unica Palma del cuore ma una delle cinque. E il cineasta ha vinto col suo film migliore, quello in cui la sua passione ossessiva non rischia più la maniera. Tre ore divampanti. Chi di noi non lo ha amato lo ha trovato senza respiro. Che può essere giustamente visto come limite. Chi lo ha amato invece non voleva respirare col film ma stare in apnea con le due straordinarie protagoniste.

D'accordo sugli altri riconoscimenti a cominciare dal grande Bruce Dern per Nebraska (il miglior film di Alexander Payne), al bellissimo giapponese Like Father, Like Son di Hirokazu Kore-eda (in cui il modo come è stata trattata l'infanzia deve essere probabilmente piaciuta allo stesso Spielberg), agli scatti imprevisti e potentissimi oltre alle nuove strade prese da Jia Zhang-ke in A Touch of Sin fino al durissimo Heli del messicano Amat Escalante, non sempre rigoroso come promette ma con uno dei finali più sorprendenti di questa edizione. Forse possiamo stare a discutere sulle categorie (Jia Zhang-ke più che Escalante per la regia) ma cambia poco.

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L'estate di KikujiroResta fuori La grande bellezza di Paolo Sorrentino, mentre ancora ieri i pronostici lo dvano in corsa per un premio importante (anche se non era la Palma d'Oro) oltre a parlare di Toni Servillo come miglior attore. Restano fuori, altri film, qui si ingiustamente. Ma stavolta è inutile prendersela con la Giuria. Il Palmarès non ci fa urlare di gioia ma in parte ci soddisfa, Il problema quest'anno è che c'erano troppi bei film per troppi pochi premi. E in queste 12 giornate, ci sono stati altri colpi di fulmine come La venus à la fourrure di Roman Polanski, Jimmy P. di Arnaud Desplechin e Jeune et jolie di François Ozon.

L'edizione 2013 è una di quelle che passerà alla storia come una delle migliori. Un concorso di così alto livello riporta alla mente a quello del 1999 quando in competizione gareggiavano, tra gli altri,  Tutto su mia madre di Pedro Almodovar, Ghost Dog di Jim Jarmusch, Una storia vera di David Lynch, Rosetta dei fratelli Dardenne e L'estate di Kikujiro di Takeshi Kitano. Un festival così ce lo porteremo dietro per parecchio tempo.

 

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