CANNES 66 – “La Vénus à la fourrure”, di Roman Polanski (Concorso)

la venus
“Roman(ce) Bondage” al teatro parigino. Leopold von Sacher-Masoch in un cul de sac di stratificata diavoleria.
Il coltello affonda, s’impunta nel legno del proscenio, sul fondale dell’ossessione. Mathieu Amalric si lamenta al telefono per le audizioni andate male. Cerca la sua Vanda, ma non la trova. Appare lei, Emmanuelle Seignier, volgare e insistente  

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a venusBacia lo stivale di cuoio lucido Cuoio lucido nell'oscurità
Lecca le cinghie, il laccio che ti sta aspettando
Diletta signora colpisci e abbi cura del suo cuore
” (Lou Reed)

 
“Roman(ce) Bondage” al teatro parigino. Leopold von Sacher-Masoch in un cul de sac di stratificata diavoleria. Il coltello affonda, s’impunta nel legno del proscenio, sul fondale dell’ossessione. Ma c’e’ ancora acqua, liquido dionisiaco ancora, vortici di ossessioni che smantellano la rappresentazione. Mathieu Amalric e’ regista teatrale che si lamenta al telefono per le audizioni andate male. Cerca la sua Vanda, ma non la trova. Appare lei, Emmanuelle Seignier, volgare e insistente. Vuole quella parte. Nasce per incanto, un rapporto di manipolazione, sottomissione sadomaso. Carnage memorabile, sempre paradossalmente in sottrazione. Da quattro nel nascondiglio borghese, a tre sulla barca, a pelo d’acqua, fino a lasciarne solo due, e Amalric (alias Thomas, alias Roman) si perde tra le maglie della “fourrure”. La somiglianza física con Polanski e’ totale mimesi, Amalric cede al cinema trapassando il teatro, cede alla vita sottomettendo l’autorialita’.
 
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Ma i rumori della tazzina di caffe’, lo schiaffo mai dato, il contratto strappato, sono immaginari, diegetici, o semplicemente “coup de théâtre (filmato)”, tra cio’ che e’ visibile e cio’ che e’ comprensibile? Nonostante fuori piova, in soggettiva, parte l’approssimarsi alla luna di fiele del desiderio incontrollabile. E’ sempre una defenestrazione il cinema di Polanski, anche quando il pianista si desta per le bombe della guerra. Al passaggio di Vanda, come fosse lo spettro del palcoscenico, il mostro dell’opera, si spalancano le porte del teatro, bagnata fradicia d’incantesimo sublime. Nel mito dell’unico punto di vista, di una sola macchina da presa, l’Orfeo del cinema ritrova Euridice a teatro, grazie ad Afrodite, “fallosamente” piazzata al centro della scena, sotto mentite spoglie, quelle di un cactus eretto. Proprio al cactus di spine viene crocifisso Thomas/Mathieu/Roman, trasformato nel finale da timoroso intellettuale in un indifeso essere con tacchi a spillo e rossetto sulle labbre. Roman Polanski e’ il geniale gobbo di scena, che non vuole affondare definitivamente nel profondo Ade del golfo mistico, oltre il regno dei morti, ma chiede i domicialiari nel suo mondo parallelo, unisono abbraccio di proscenio e (avan)spettacolo, mitologia e fantascienza. La platea e’ fuori dai giochi a due, se non ci fosse pero’ il cinema, capace di espugnare il castello, sempre quello dall’ingresso invitante, scivolando sul frantic/braccio di Hitchcock, senza pero’ sorvolare e planare dall’alto, ma restando con i piedi per terra, o appena lievitati, tanto da non far sentiré i passi della Dea. La potenziale Vanda starnazza inizialmente come le bestioline del castello di Cul de sac, per poi magicamente impossessarsi della sua parte e del suo autore. Inquietanti corrispondenze. La donna nell’ombra riscrive le parti, di suo pugno, scambiando i ruoli, conquistando il potere, raggiunto per ascensione alla Macbeth, con un’irruzione verticale e una fuga all’inverso. Che?
 
la venusLa sala delle audizioni e’ un confessionale che rifiuta la privatezza (anche per James Gray…), non nega l’uscita, ma una volta guadagnata ci pone nella strana sensazione di chi si ritrova al punto di partenza, come se non fosse accaduto nulla, o meglio, come se l’esperienza vissuta si rivellasse illusoria, fantastica, cerebrale. Nello spazio claustrofobico si puo’ vagare, ci si puo’ perdere, si puo’ impazzire, spazio senza la quarta, la terza, la seconda parete, grattate via per Repulsion. L’inquilino butta giù le pareti, scende al terzo piano, nell’universo dell’ambiguita’, si traveste e giunge sull’orlo del suicidio autoriale. Circolarita’ sul palco: Vanda gira intorno a Thomas e tiene anche una seduta psicanalitica. Lui si allunga sul divano di scena. Vanda sembra uscita da un porno soft, con occhiali, giacca e sotto il vestito praticamente niente. Gia’, la circolarita’: si annulla il tempo, la realta’ della narrazione e’ tra parentesi, e Thomas sente sempre piu vicina Rosmary. La schizofrenia e’ reale o la realta’ e’ schizofrenica. Thomas vorrebbe riprendere il comando, ma cede ai colpi di Vanda. Vorrebbe riemergere come quei due uomini com l’armadio, ma fa la stessa fine: fa qualche giro e poi ritorna da dove e’ venuto, nella disperazione creativa. Ma Polanski è consapevole di non poter fare a meno di mappe, strumenti e copioni, l'unico modo per riuscire a scansare il pericolo della deriva psicologica cui lo espongono le sue ossessioni. E’ quindi stavolta, ancora una volta, geometrico sulla scena, attento ai dettagli che Amalric soprattutto inventa dal nulla. Ogni tanto si "rifugia" nella oscura Chinatown tra apparizioni e sparizioni, noir o semplicemente nebbia, con l'occhio degli anni Settanta. Più spesso, però è in collisione con i fantasmi del cinema classico che lo costringono ad un corpo a corpo in cui sguaina le sue nevrosi, una volta per tutte, favolosamente teatrali.
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