CANNES 66 – “My Sweet Pepper Land”, di Hiner Saleem (Un Certain Regard)

my sweet pepper land
Con una tragicomica impiccagione iniziale si svela il cinema, ancora in bilico tra tragedia e farsa, nella sublimazione di una staticita' forzata. Sul confine tra Iran e Turchia, in un piccolo villaggio “western”, i campi lunghi di una volta cedono il passo a primi piani più insistiti, quasi a voler ritrovare, il dettaglio nei volti, il ricordo, che gia' fu caro al regista, di una traccia “ritrattista”

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Il regista kurdo, molto amato in Francia, gira sulla frontiera tra l’Iran e la Turchia, in un villaggio sperduto tra le montagne. Baran e’ un eroe della guerra d’indipendenza kurda che accetta di diventare il capo della polizia in un piccolo centro iracheno, ai confini del mondo. Un territorio senza legge, nel cuore di traffici di droga, alcool e medicinali. Si rifiuta di sottostare alla legge del capo del villaggio, corrotto e violento. Qui conosce Govend, insegnante elementare, nonostante l’ostilita’ dei suoi dodici fratelli, preoccupati di salvaguardare l’onore della sorella. Insieme, Baran e Govend, vogliono spodestare il capo del villaggio e appoggiare la causa della resistenza kurda. Gia’ dalla prima scena si scopre il tratto distintivo del regista. Una tragicomica impiccagione svela il suo cinema, da sempre contraddistinto dalla capacita' di muoversi tra tragedia e farsa, nella sublimazione di una staticita' forzata. Baran ad un certo punto tiene a precisare di non sentirsi un poliziotto, ma un combattente. Come un cavaliere solitario, più o meno pallido, senza macchia, pronto a difendere i più deboli e a riportare la legalita’ tra la sua gente.

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my sweet pepper landPare assumere i tratti del western ad un certo punto il film, soprattutto nei momenti in cui a cavallo si attraversano le immense vallate, o quando negli scontri a fuoco si sperimenta quella sospensione dell’atto, prima della risoluzione dei conti. L’umorismo e’ la grazia della disperazione, ma in questa opera, soprattutto nella seconda parte, Hiner Saleem sembra fare sul serio, fino in fondo, sottraendo al suo stile, sempre in equilibrio tra grottesco e dramma, quell’impronta di “divertita” rassegnazione. Il passato e’ triste, il presente e’ catastrofico, ma per fortuna non si vede il futuro… stavolta probabilmente trapela paradossalmente una disperata fiducia. Disperata perche’ sempre complicata da spiegare, ma palpabile, terribilmente necessaria.  Il film s'interrompe su un momento di speranza.  Si chiude sul grido di richiamo tra le gole della valle, di Baran e Govend, che preannuncia il ritrovarsi, preannuncia il ricompattamento di un universo  imploso, in cui  lo spazio sterminato si accorcia. Gli esterni alzano immaginari confini di poesia e iperrealismo. I campo lunghi di una volta si fanno più rari, per cederé il passo a primi piani più insistiti, quasi a voler ritrovare, il dettaglio nei volti, il ricordo in una traccia del passato “triste”, quello “ritrattista”, a cui il regista (anche pittore) sembra essersi ispirato, per raccontare la sua cara e devastata terra.   

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