CANNES 66 – "Norte, the End of History", di Lav Diaz (Un certain regard)

Norte, the End of History

Erano più di dieci anni che Lav Diaz non si cimentava col colore. Sfida stravinta: Norte segna una svolta stilistica radicale, in cui fra l'altro viene trovato pure un senso nuovo ai movimenti di macchina. Rimane immutata la sua enorme ambizione: ad essere affrontato di petto (per andare oltre) è qui niente meno che Delitto e castigo.

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Norte, the End of HistoryA più di dieci anni da Batang West Side (2001), Lav Diaz torna a lavorare sul colore. Il risultato è straordinariamente intenso – anche, e soprattutto, nelle scene in cui il nero impera. Non è tutto. Norte fa sfoggio altresì di un nuovo, efficacissimo approccio ai movimenti di macchina: lenti e insinuanti, precisi come un bisturi, vengono usati per meglio “temporalizzare” scene ora di una lunghezza meno estenuata del solito, e spesso singolarmente coincise. La durata totale stessa è meno estrema: “solo” quattro ore e dieci.

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Ad essere immutata è l'ambizione, enorme. Il film prende le mosse da un novello Raskolnikov, ex (ed eterno) studente di giurisprudenza portato dal suo idealismo nichilista a uccidere un'usuraia che sta rendendo la vita impossibile a una donna povera e con marito invalido a carico. Naturalmente, il suo gesto non fa che peggiorare la situazione: a venire accusato e imprigionato finisce per essere proprio il marito. Per vie differenti, i tre diversissimi protagonisti giungono presto o tardi alla medesima impasse, tutti intrappolati nel proprio vicolo cieco. Tutti dietro le sbarre, che siano reali o meno poco importa: e abbandonando il suo superlativo bianco-e-nero per una luminosa sensualità cromatica, Diaz ci fa avvertire un mondo ancora più concreto ma paradossalmente ancora più imprigionante dentro la sorda spietatezza della sua fisicità. A farci sentire sbarre che non ci Norte, the End of Historysono sono, come sempre, e praticamente in ogni inquadratura, le geometrie invisibili della messa in scena, l'organizzazione di corpi e oggetti nello spazio, arte che trova oggi in Diaz uno dei massimi officianti in assoluto. Tant'è che, ad esempio, appena prima che l'innocente finisca in carcere, il regista si concede persino un vezzo langhiano: architetta un lento movimento di macchina che culmina su di lui, immobile, re-inquadrato nel nero da una finestra, dall'esterno.

Il più prigioniero di tutti è proprio il nostro Raskolnikov, colui che più si dimena e si dibatte per sfuggire al destino: più le sue intenzioni sono buone e lodevoli, più le sue azioni si rivelano malvagie (fino a livelli letteralmente traumatici). Con mossa da grande romanziere (quale è), Diaz lo fa scomparire dalla nostra vista per tutta la parte centrale, appena alludendo qua e là al suo essere al nostro fianco come spettatore impotente del calvario infinito dei due coniugi. Facendoci assistere alla quotidianità priva di scampo (ecco perché la macchina da presa deve marcare il tempo così stretto, e dedicarsi con tanto zelo alla ricostruzione minuta delle forme del movimento) di colei che egli avrebbe voluto salvare, il racconto di fatto si arresta lungamente. Eccola, la fine della storia del titolo: ma è solo una pausa, una rincorsa che il protagonista prende per poterla riattivare con un nuovo tentativo di riparare le cose, ugualmente destinato a sbattere contro la coazione a ripetere una fuga che ogni volta si rivela impossibile.

L'intreccio stesso, in sé e per sé, coincide con la fuga: ma il cinema di Diaz abbraccia stretto la forza di gravità, che ne annulla le traiettorie. Per via dello spessore impenetrabile del mondo, su cui un ineffabile ordine grafico non cessa di farsi strada, è come se il racconto, per intricato che sia, non partisse mai. Non c'è niente di peggio che sopravvivere a se stessi, vivere al di là di quello che la Storia pretende dalle nostre azioni, ci dice il nostro protagonista già dopo pochi minuti. Non sa (ancora) che questo scavalcamento, quello tra il tempo e la propria stessa impiegabilità, non è che la norma – una norma da cui non si scappa.

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