CANNES 66 – "The Bling Ring", di Sofia Coppola (Un certain regard)
Anche quando sembra partire il videoclip, in realtà non si gira mai al ritmo della musica. C'è sempre lo scarto di una ripresa un po' più lunga del dovuto, di un ralenti improvviso, di un campo vuoto non previsto. Ed è proprio in quei punti in cui il mondo non tiene, lost in translation, che il cinema della Coppola, trova le sue emozioni nascoste
Non c'è mai alcuna promessa di piacere e trasgressione nelle imprese di questi giovani ladri, che s'introducono nelle case dei vip, per conquistarsi brandelli di lusso da condividere su facebook. Rimangono semmai gli urletti d'ordinanza di Emma Watson, Katie Chang e Taissa Farmiga. E quella percezione chiara, quasi brutale, di un'illusione impotente: la tenera fede, fuori tempo massimo, nella verità dell'immagine. Ma la deformazione prospettica è ricondotta puntualmente alla sua esatta dimensione, proprio nei momenti in cui l'immagine è sgranata, viene a mancare, come nei notturni delle videocamere di sorveglianza o nei campi lungi che seguono, impassibili e cupi, i furti.
La Coppola è spietata, marca la distanza, con quelle dilatazioni progressive, che sono la prosecuzione naturale dei giri a vuoto di Somewhere e contraddicono le apparenze cool del suo cinema. Anzi è sempre più chiaro come tutto si giochi proprio sullo svelamento dell'essenza scarnificata di quelle apparenze. Anche quando sembra partire il videoclip, in realtà non si gira mai al ritmo della musica. C'è sempre lo scarto di una ripresa un po' più lunga del dovuto, di un ralenti improvviso, di un campo vuoto non previsto. Ed è proprio in quei punti in cui il mondo non tiene, lost in translation, che il cinema della Coppola trova le sue emozioni nascoste. Sempre a margine, come d'obbligo, nelle ville o nelle auto non chiuse a chiave, nelle stanze deserte di Versailles, nelle giornate solitarie in albergo, nel sonno che ti prende all'improvviso, nonostante l'amore. Ed è questo a segnare la differenza fondamentale rispetto ai registi di famiglia, padre e fratello, concentrati a inseguire le proprie ossessioni. The Bling Ring mostra semmai la vera paternità del suo cinema, quella di Gus Van Sant, che si materializza nelle traiettorie senza fine dei suoi ragazzi, nella aria grunge di desolazione e splendore che li accompagna, nelle luci che si cristallizzano ed evaporano di Harris Savides (al suo ultimo film, prima della scomparsa). Sofia si muove, comunque, oltre i margini, ma non insegue nulla, se non quell'attimo di vuoto. La mattina dopo la festa. È solo quando esce da queste traiettorie, quando smette di ricercare quel barlume di verità nel nulla, che il suo cinema va fuori asse. Come nell'ultima parte del film, quella in cui l'illusione dello show è messa alle corde da un'ironia demolitoria, un distacco di condanna. Intravediamo un sorriso oltre la grana delle immagini. Ma ci sembra una smorfia congelata.