CANNES 67 – Charlie's Country (Un Certain Regard)

charlie's country
Rolf de Heer continua nel suo percorso aborigeno, ritornando a lavorare con i suoi attori feticci della tribù Yolngu, su tutti David Gulpilil alla sua terza collaborazione. Sulle orme dell'antropologo australiano Donald Thomson, il regista compie però un passo indietro dalle precedenti opere, ancora più dipendente e legata al corpo di Charlie, al suo volto sofferente, al suo immaginario ferito

 
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charlie's countryIl gran premio della giuria a Venezia nel 1993 con Bad Boy Bubby e premio della giuria a Cannes, sempre nell sezione Un Certain Regard nel 2006, con 10 Canoe, olandese di origine, australiano di adozione, continua deciso nel suo percorso aborigeno, ritornando a lavorare con i suoi attori feticci della tribù Yolngu, su tutti David Gulpilil alla sua terza collaborazione. In una comunità chiusa, come una sorta di riserva nella foresta, Charlie sente crescere una forte depressione, alla ricerca della propria terra madre, ormai solo un miraggio, un tramonto lontano. Si ribella con i bianchi, guardie forestali, e cerca di sconfinare, ma trova la prigione, dopo essersi perso nell'alcool e nel vagabondaggio. Ha con se una foto dell'inaugurazione dell'opera di Sidney, in cui ha ballato per la Regina Elisabetta d'Inghilterra. nei momenti di sconforto la tira fuori per rievocare quel brivido e magari sentirsi integrato nel mondo nuovo. Rolf de Heer cattura la sua ispirazione dal reale, Charlie prima del film è stato in galera e bisognava trovare una storia che potesse tenerlo lontano il più possibile dalla detenzione. Sulle orme dell'antropologo e ornitologo australiano Donald Thomson, il regista compie però un passo indietro dalle precedenti opere, ancora più dipendente e legata al corpo di Charlie, al suo volto sofferente, al suo immaginario ferito. Sembra essere cinema più aperto, forse democratico, imposto al nostro tempo: la contaminazione tra finzione, documentario e televisione si fa più flebile del passato.

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charlie's countryProbabilmente proprio quella voglia di aprirsi ad una storia più legata esplicitamente alla retorica della segregazione, rende meno efficace lo spirito di ricerca e di sperimentazione visiva, comunque mostrata nei suoi trascorsi. Comincia con il sorvolare una terra lontana, l'Australia degli aborigeni e quel "c'era una volta" aprirebbe al racconto, alla leggenda, ad un'esperienza in "presa diretta" sul campo. Ma la macchina da presa non riesce a estendere lo spazio sconfinato a disposizione. Più che della paura delle persone che si filmano, così fuori o dentro il mondo, è la paura di non filmarle. È la paura di incitarle, di spingerle a uscire da loro stesse per diventare personaggi di film; nello stesso tempo però si ha la paura di non poterlo fare, di non riuscirci, perché allora non ci sarebbe film, o ce ne sarebbe uno meno interessante. Il regista si guarda bene dal rischiare la propria posizione (Domenico Procacci, produttore esecutivo, ha un effetto in tal senso?) andando incontro al pericolo e alla paura, perché quel mondo che crediamo o vorremmo che non esista più, si possa aprire dinanzi a noi e danzare. E la scena in cui Charlie cerca di tramandare i passi della danza tradizionale alle nuove generazioni, non si libera totalmente   Mai così lontano dalla finzione totalizzante del tutto, il cinema di Rolf De Heer vorremmo che rompesse con il reale e "sprofondasse" con ciò che resiste, che resta, con lo scarto, il residuo, l'escluso, la parte maledetta. Ma i limiti del suo sguardo non giungono ai limiti del cinema: si chiude negli angoli dello spazio restando senza respiro. Il cinema ingombra, occupa le vie di fuga, è lontano dall'essere nascosto: gli aborigeni sono costretti a scartarlo, girarci intorno. La rivoluzione non c'è stata (e non ci sarà?), perché ormai è possibile avvicinare la macchina da presa ovunque (e da chiunque); è possibile (non) fare cinema sospendendo la pressione fisica del filmato, il suo respiro, un soffio, la sua presenza. Rolf de Heer regna nell'incertezza: i corpi del nuovo cinema (o del vecchio mondo) attendono di essere trapassati dall'invisibile, da ciò che ancora non è diventato sguardo, che ancora non è diventato spettacolo.

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