CANNES 67 – Lost River, di Ryan Gosling (Un Certain Regard)


Il film mette in scena la passione di Gosling per il fuoco, una vera e propria piromania innanzitutto dal punto di vista cromatico, del contrasto: sembrerebbe quasi che il film il biondo attore abbia voluto dirigerlo soprattutto per poter inquadrare delle fiamme. Peccato che dei fuochi interiori di queste teenage wasteland dopo la fine del mondo non ci arrivi invece nulla

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Ryan Gosling si dimostra gia’ all’esordio un regista attento alla costruzione di un’immagine stratificata e dalla composizione articolata, seppur spesso votata alla stilizzazione essiccata al neon; malauguratamente, il grande sforzo e sfoggio visivo che ogni inquadratura del film restituisce non si trasforma mai in una tensione cinematografica, o in qualcosa che valga quantomeno il tentativo dell’avvicinarvisi (alla tensione, e al cinema). Verosimilmente, a Gosling, come d’altronde al cineasta suo mentore, di cui Ryan recupera una clamorosa quantita’ di situazioni narrative e di soluzioni formali e di postproduzione (filtri, stacchi di montaggio, colonna sonora di trance frastornante), interessa legittimamente andare in un’altra direzione (videoclip? videoarte? architettura postmoderna di interni? disegno di accessori di arredamento di design?)

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E’ lucidissimo il Gosling autore (il film e’ written and directed by), forse lo e’ addirittura spaventosamente troppo: la metafora del cabaret dell’orrore in cui la Hendricks e Eva Mendes si esibiscono in performance gore con abuso di sangue finto schizzato a fiumi in faccia agli avventori beati nasconde senza troppe elucubrazioni una chiara metafora del pubblico del cinema che ha reso Gosling un’icona (per non parlare della camera sotterranea in cui i clienti possono abusare della performer protetta sottovuoto in una sorta di sarcofago trasparente dalle curve femminili…). E tra le catapecchie-museo rimaste in piedi in questa citta’ fantasma in cui l’autore ambienta la sua storia, ce n’e’ una con dentro Barbara Steele, destinata a prendere fuoco. Tutto chiaro, Ryan (ti sara’ capitato di vedere per caso un vecchio film di Almereyda?).
Compresa la passione di Gosling per il fuoco, una vera e propria piromania innanzitutto dal punto di vista cromatico, del contrasto: sembrerebbe quasi che il film il biondo attore abbia voluto dirigerlo soprattutto per poter inquadrare delle fiamme, giocarci sulla scena.

Peccato che dei fuochi interiori di queste teenage wasteland dopo la fine del mondo, e della vita subacquea (correttamente opposta dal punto di vista simbolico all’ossessione per gli incendi, che noia) che i due ragazzi protagonisti portano avanti come visitatori zombie del parco di divertimenti sommerso dal lago artificiale, forse il set piu’ visionario del film, non ci arrivi invece nulla.
Gosling pare morbosamente piu’ innamorato invece delle maschere grottesche dei “cattivi”, Bully il bullo padrone della citta’ e il direttore di banca mefistofelico e sordo da un orecchio, che ha messo gli occhi sulla madre in difficolta’ Christina Hendricks (il banchiere del diavolo e’ Ben Mendelsohn, il quale pare divertirsi sul set molto piu’ di Saoirse Ronan e Iain De Caestecker messi insieme).
Ma e’ tutta una questione di aspettative, alla fine. Le nostre, quelle del film, dei personaggi addirittura: anche qui, basta prestare attenzione al fatto che il protagonista passi le giornate a racimolare ferraglie e macerie nelle case disabitate da rivendere alle discariche di rifiuti meccanici degli sfasciacarrozze.

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